Toglimi le mani di dosso (Olga Ricci)

Amarezza. E’ questo il sentimento che traspare leggendo le pagine del libro di Olga Ricci, Toglimi le mani di dosso; l’autrice si nasconde dietro uno pseudonimo per raccontare la ricerca del lavoro da sempre desiderato e per il quale ha investito studio, risorse, energie. Un’esperienza soggettiva, certo, ma nella quale può riconoscersi (per un motivo o per un altro) qualsiasi under trenta dei giorni nostri.

Toglimi le mani di dosso, uscito lo scorso settembre in libreria, ha come leit motiv la violenza nel luogo di lavoro; l’autrice pone l’accento su tutti quegli atteggiamenti subdoli che sono riconducibili alla categoria delle molestie sessuali. Più spesso sono le donne ad esserne vittima e possono essere considerate alla stessa stregua della violenza fisica o psicologica, che trova maggiore spazio mediatico rispetto alle proposte indecenti del “capo” taciute dalle dipendenti per ovvi motivi (per ulteriori dettagli, è possibile consultare il blog di Olga cliccando qui).

ricci

Non si può fare a meno di riflettere anche su un altro particolare aspetto del libro; Olga Ricci è una giornalista e, giustamente, ci descrive uno spaccato dell’ambiente lavorativo in cui si trova ad operare. Mi sono interrogata su ciò che può significare, oggi come oggi, approcciarsi a questa professione.

L’ambizione di raccontare la realtà, seguendo un principio di verità, nobilita il mestiere di chi scrive perché veicola un sistema di valori; tuttavia, ciò sembra dover andare per forza a braccetto con compromessi estorti in sordina, soprattutto alle lavoratrici. Ricatti, insomma, per cui chi vi cede ha la possibilità di svolgere finalmente il lavoro per cui ha studiato anni e anni, ma che dovrebbe essere un meritato traguardo e non una merce di scambio.

Una visione piuttosto pessimistica quella dell’autrice che, però, speriamo non sia effettivamente riscontrabile così spesso come sembra da queste pagine ben scritte; nel marcio ambiente raccontato vanno avanti solo coloro che hanno la “spintarella” o i “figli di papà” e non importa se sono un disastro a mettere una dopo l’altra le parole o se non conoscono a fondo la grammatica italiana. Ci auguriamo che Olga sia stata solo molto sfortunata, ma il suo caso induce a riflettere sul fatto che bisognerebbe (in tutti i settori, ma in modo particolare nel giornalismo) svolgere la propria professione sempre con dignità senza vendersi al migliore offerente.

Tale considerazione è strettamente collegata con la questione del precariato; se nessuno si accontentasse di lavorare gratis pur di fare una qualsiasi esperienza da inserire nel curriculum vitae, forse cambierebbe qualcosa. Forse, dovremmo essere più coscienziosi nella scelta di un lavoro che, il più delle volte, non retribuisce per mesi o peggio, per anni. Affidarsi completamente a qualcun altro strapperebbe via il valore al lavoro stesso, rendendoci facilmente ricattabili.

Maddalena Sofia

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