Certo un autore come Mark Twain sembra non aver bisogno di presentazioni: tutti noi ci siamo imbattuti almeno una volta nelle sue opere o nelle varie e disparate trasposizioni delle sue storie. In un modo o nell’altro ci risulta immediatamente un autore noto, celebre.
Esistono però parti della sua lunga bibliografia che rimangono per lo più sconosciute, sepolte dai nomi ben più altisonanti di romanzi quali “Tom Sawyer” o “Huckleberry Finn”, che se scovate, sono in grado di regalarci nuove prospettive e interessantissimi scorci su uno scrittore all’apparenza così familiare.
È questo il caso dell’ultimissimo romanzo pubblicato da Twain, nel 1909. Si tratta di un libriccino minuto e dunque anche all’apparenza fisica un’opera “minore”: ma fidatevi, si tratta solo, appunto, di un’impressione.
L’idea originaria dell’opera risale a più di quarant’anni prima della sua uscita, in seguito a un naufragio scampato e all’amicizia stretta dallo stesso Twain con il capitano della nave su cui si trovava -un certo Edgar Wakeman- che amava raccontare strane storie. Tra queste, quella di un suo viaggio in Paradiso, creduto e riportato dal vecchio lupo di mare come un’esperienza assolutamente reale. Lo scrittore colse al volo l’occasione per ricamarci su una delle sue indimenticabili storie; e nonostante il romanzo sia rimasto così a lungo nel suo cassetto, riuscì finalmente a completarlo sei mesi prima di morire.
Le poco più che cento pagine che lo compongono scorrono via con una piacevolezza immensa, e assorbono il lettore in un racconto inaspettato e pregno del tipico, irresistibile humour del buon vecchio Mark.
A metà tra una rivisitazione parodica dell’Inferno dantesco e uno strampalato romanzo di fantascienza, il romanzo, partendo dal punto di vista del comandante Wakeman, descrive un Paradiso molto diverso da quello che normalmente tendiamo a immaginare. Ironizzando senza maschere sulle convinzioni ingenue e sugli stereotipi dei viventi, Twain incomincia descrivendoci il viaggio per l’aldilà come una sorta di viaggio compiuto nell’iperspazio alla velocità della luce, in cui si può fare a gara con le comete ma dove purtroppo proprio non si riesce ad accendere il tabacco per farsi una fumatina in santa pace.
La meta finale è una sorta di immenso “portale di accettazione”, dove, con sorpresa, veniamo a sapere che i terrestri non sono che una ridicola minoranza rispetto alle migliaia di individui di razze “con sette teste e una gamba sola”.
Varcata la fatidica soglia, il nostro protagonista scopre inoltre che aureole, arpe e alucce non sono poi così comode come aveva creduto; e nemmeno gli inni che prova a strimpellare sembrano arrecargli poi così tanta gioia celeste. Questo è un paradiso che non possiede la felicità assoluta: il dolore c’è, anche se breve, e per giusto contrasto con una gioia che altrimenti sarebbe priva di senso.
È un paradiso in cui Shakespeare deve cedere il passo a uno sconosciuto sarto del Tennessee, e dove puoi scegliere di avere vent’anni per l’eternità, ma ti accorgi presto che non è meraviglioso come credevi.
È un luogo aperto a tutti, per dimostrare la meschinità degli intolleranti, ma al contempo possiede una sua rigida gerarchia sociale, per abbassare i presuntuosi. La terra, da quelle parti, è nota a tutti con il nome di “Verruca” tanto appare insignificante, ma anche al più piccolo degli uomini spetta tutta la felicità che si è guadagnato e di cui non ha potuto godere in vita. Maometto, Buddha e Zoroastro camminano insieme, e la zona americana del Paradiso è piena di Indios e di pochi pallidi, “malati” bianchi.
In questa incredibile fantasia ancora una volta Mark Twain sa essere pungente e sa far ridere, sa divertire e far riflettere come nessun altro.
Insomma, forse il Paradiso delineato da Twain con tanta arguzia, genialità e umorismo è molto diverso dal nostro sentire comune, ma molto probabilmente, in fin dei conti, è anche uno dei Paradisi più giusti e reali che si possano immaginare.
Rossella Miccichè
“C’è molto dolore e molta sofferenza in cielo….di conseguenza ci sono molti contrasti e una felicità davvero senza fine.”
Mark Twain (1835-1910), pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens, è stato uno dei più importanti scrittori statunitensi. È autore di capolavori quali “Tom Sawyer”, “Il Principe e il Povero” e “Huckleberry Finn”.