Muse – “Drones”

La bomba è stata sganciata alla fine del tour di The 2nd Law: il nuovo album dei Muse sarebbe stato un vero back to the roots per la band inglese, che avrebbe rimosso tutti quegli elementi, quali elettronica e parti orchestrali, che avevano caratterizzato gli ultimi lavori. Così parlava Matthew Bellamy qualche mese fa. Ora l’ultimo disco della band inglese è fra noi, si chiama Drones ed è un concept album incentrato su un futuro distopico monopolizzato, appunto, dai droni che permettono di uccidere stando comodamente seduti a casa propria. Un concetto, quello della spersonalizzazione dovuta alle tecnologie e al loro abuso, che qui si spinge fino a “disumanizzare” la violenza e l’omicidio: senza dubbio un tema interessante. Ma lasciamo a voi il gusto di scoprire come si sviluppa la trama di Drones, per addentrarci nell’analisi dell’aspetto musicale del platter.

Diciamo subito che le promesse sono state mantenute, seppur in parte. L’elettronica e gli inserti sinfonici sono presenti anche qui, seppur in misura molto ridotta rispetto a  The 2nd Law, o anche a The Resistance: quello che è evidente fin dal primo ascolto, però, è la ripresa di un sound sporco e aggressivo, che mancava dai tempi di Absolution (escludendo qualcosa di Black Holes And Revelations). Bellamy ha rimesso la chitarra al centro di gran parte dei pezzi, “asciugando” notevolmente la loro struttura. Basti ascoltare il primo brano estratto da Drones, Psycho: a dominare tutto il pezzo è un riff che i Muse hanno proposto molte volte dal vivo, come coda di altre canzoni. Il risultato convince pur senza entusiasmare, e riporta la band britannica in quel seminato che ha fatto la gioia dei fan in tutto il mondo. La matrice spiccatamente live del disco affiora qua e là anche in altri brani: nel finale di Reapers (sembra di ascoltare la chiusura di un pezzo in un qualsiasi concerto dei Muse), o nei soli di chitarra della stessa, come anche di Defector, caratterizzati da quel whammy pedal che Bellamy usa spesso e volentieri sul palco.

Drones 2

Ma le canzoni come sono? In generale la qualità media dei brani di questo Drones è decisamente superiore agli ultimi lavori dei Muse, tanto che possiamo parlare di miglior album dai tempi di Black Holes & Revelations, se non addirittura dello stesso Absolution. No, non stiamo esagerando: l’opener Dead Inside, dominata dall’elettronica, stravince il confronto con Madness, sua “sorella (quasi) gemella” di The 2nd Law; elettronica che troviamo anche in Mercy, brano che riporta alla mente le sonorità di Starlight e che sta già dimostrando il suo potenziale live sui palchi di mezza Europa. La tripletta ReapersThe HandlerDefector è probabilmente il punto più alto di Drones: non ci aspettavamo che i Muse potessero tornare a questi livelli. Revolt non è certo un pezzo eccezionale, ma ha dalla sua una melodia davvero vincente e, ipotizziamo, darà il meglio di sé dal vivo. Dopo la toccante Aftermath, dominata da una chitarra che fa molto Dire Straits (davvero), abbiamo The Globalist: oltre 10 minuti di durata per un brano diviso in tre parti, con un’intro che ricorda vagamente una composizione di Morricone, una sezione centrale davvero arrabbiata, e un finale corale e melodico. Ci vogliono più ascolti per assimilare questa canzone, che alla fine risulta un po’scollegata nelle sue parti, ma in generale riuscita. La conclusione è affidata alla titletrack, Drones, dominata da un coro forse troppo pomposo, ma di indubbio impatto.

È chiaro che questo Drones è stato scritto e suonato avendo ben chiara la sua destinazione di materiale da tour. Eppure, quello che è inciso tra i solchi dell’ultimo album dei Muse convince da subito. È la prima volta che Bellamy e soci non fanno altro che riproporre un sound già sperimentato in altri album (Absolution su tutti), ma vista la qualità dei brani qui contenuti non possiamo certo lamentarci. Pochi momenti di stanca (Revolt e Dead Inside, che però ha dalla sua il fatto di trovarsi al primo posto della tracklist, pregio non da poco parlando del brano meno riuscito), e tanti pezzi degni di nota, per un disco che in sostanza ci ha convinto dall’inizio alla fine, regalando ai fan quel back to the roots che aspettavano da tanto tempo.

Giacomo Piciollo

 

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