Mumford & Sons – “Wilder Mind”

Cosa rispondereste, se vi chiedessimo quali sono, a vostro avviso, le sonorità caratteristiche dei Mumford & Sons? La risposta più gettonata sarebbe di sicuro quel folk che la fa da padrone nei loro primi due dischi. Un sound scanzonato, allegro e che invogliava in molti casi a ballare e cantare a squarciagola quei cori così coinvolgenti: un sound, in una parola, divenuto caratteristico della band londinese. Che, però, fin dalle prime interviste riguardanti la preparazione del terzo album, sembrava voler essere abbandonato. Si preparava un cambio di direzione netto ed inaspettato, che ha iniziato a concretizzarsi con il primo singolo, Believe, si è rafforzato con il secondo, The Wolf, e ha trovato il suo compimento proprio con Wilder Mind, il disco che andremo ad analizzare oggi. Un disco rischioso, senza dubbio: una svolta così radicale deve necessariamente essere supportata da belle canzoni, per non apparire fine a se stessa. E, lo diciamo fin da subito, in Wilder Mind le belle canzoni sono davvero pochine.

Non parleremo qui delle somiglianze di questo album con certi lavori del Coldplay (pensiamo in particolare ad X&Y), fatto che comunque va citato per sottolineare una preoccupante mancanza di spinta creativa lungo tutto il platter. Il nuovo vestito che i Mumford hanno messo alla loro musica è indubbiamente accattivante, Wilder Mind suona moderno e fresco per tutta la sua durata. Il problema sorge ad un ascolto più approfondito, ed è una quasi totale assenza di brani di spessore che giustifichino il cambiamento. Quello che troviamo in questo album è una serie di canzoni affatto brutte, e che però potrebbero essere state scritte da uno qualsiasi della miriade di gruppi che, negli ultimi anni, hanno suonato pop-rock melodico e venato di elettronica. Mancanza di creatività, dunque. Facciamo un esempio: prendiamo brani come l’opener Tompkins Square Park, il singolo The Wolf, la title track Wilder Mind, Ditmas e Snake Eyes. Sono cinque brani, quasi la metà dell’intera tracklist (che ne conta 12): bene, sappiate che queste canzoni hanno lo stesso pattern ritmico, ripetuto ossessivamente. La cosa diventa evidente quando si conclude The Wolf ed inizia Wilder Mind, quasi non ci si accorge di aver cambiato traccia. Di per sé, non è certo un elemento che affossa la qualità del disco, ma è senza dubbio un sintomo di come i Mumford non siano certo a proprio agio in queste nuove sonorità.

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Possiamo individuare, in questo Wilder Mind, due problemi principali. Il primo è il totale abbandono delle sonorità caratteristiche del gruppo: i primi due album della band britannica avevano trovato una propria identità, una propria natura che qui viene completamente a mancare. Un brano come Only Love riporta, nella prima parte, quella coralità che caratterizzava i vecchi lavori dei Mumford, prima che il solito pattern ritmico intervenga ad appiattire il tutto. Questo non sarebbe nemmeno un problema (e anzi, la volontà di sperimentare è sempre ben accetta), se non intervenisse il secondo punto critico, già citato: in Wilder Mind mancano le canzoni. Certo, qualche sprazzo più convincente c’è, qua e là: ad esempio la riuscita Cold Arms (che però è anche la più vicina al vecchio sound), la già citata Ditmas, o Broad-Shouldered Beasts, una convincente ballad urbana. Ma è davvero tutto qui.

È difficile comporre musica quando si è arrivati alla notorietà. Il dilemma è sempre quello: dare in pasto ai fan qualcosa che già si aspettano, o percorrere nuove vie guidati dalla propria creatività? Sulla carta non c’è dubbio che, per onestà intellettuale, nonché per l’arricchimento della scena musicale, la seconda via va preferita. C’è però un punto fondamentale, in ciò: deve essere la creatività a guidare svolte di questo tipo. La abbiamo citata moltissime volte nel corso della recensione, proprio perché in Wilder Mind le tracce di creatività sono pochissime. La questione non sta nel sound rinnovato: moltissimi sono i gruppi che, dopo un esordio discografico, cambiano le proprie coordinate stilistiche, anche più volte (pensiamo ai Radiohead), riuscendo a tirar fuori dal cilindro grandi album. Magari i Mumford devono trovare dimestichezza con questa nuova veste, magari il prossimo disco (se non sarà un ritorno alle origini) sarà davvero convincente: tuttavia, l’inizio del nuovo percorso non è dei migliori.

Giacomo Piciollo

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