Se vogliamo parlare dell’ultima tragedia che ha sconvolto le acque del Mediterraneo, non possiamo parlare di novità. La novità potrebbe apparentemente risiedere nell’entità quasi incredibile corrispondente al numero di vittime che ha provocato. Ma si tratta di una novità appunto apparente, superficiale e soprattutto immaginabile. Le traversate in mare sono tornate ad essere di routine non appena è iniziata la primavera, e sono destinate a rimanerlo per tutta la durata di quella che siamo soliti chiamare bella stagione, ma che per il Sud Europa equivale ormai al periodo dell’anno in cui si moltiplicano gli sbarchi, l’accoglienza di nuovi migranti e soprattutto le operazioni di salvataggio in mare.
Già in seguito alle oltre trecentocinquanta vittime accertate durante quella che è ormai divenuta tristemente nota come La strage di Lampedusa dell’ottobre del 2013, si sprecarono gli appelli all’Unione Europea affinché si prendessero provvedimenti idonei, atti ad affrontare un problema che non poteva essere più considerato come circoscritto alla sola area dell’Europa mediterranea.
Nonostante i ripetuti mai più, nonostante il turbamento generale ed il cordoglio che caratterizzò i giorni successivi alla tragedia, la questione scivolò ancora una volta in secondo piano. L’inverno era ormai alle porte, sicuramente le traversate in mare sarebbero diminuite di numero, dando modo alle autorità europee di procrastinare ulteriormente il momento in cui dover affrontare quella che si continuava a chiamare emergenza, ma che già si avviava a diventare una situazione permanente di vera e propria crisi umanitaria.
Le misure prese dall’Unione Europea si sono concretizzate nel programma Triton, introdotto per sostituire l’operazione Mare Nostrum, gestita fino a quel momento esclusivamente dal governo italiano. Bastava soffermarsi sull’evidente distanza di obiettivi (nonché di fondi stanziati) per capire che l’iniziativa non sarebbe andata a buon fine. Triton viene definito come un programma di protezione delle coste europee, non come una vera e propria operazione di salvataggio in mare dei migranti, portata avanti con meno di tre milioni di euro mensili contro gli oltre nove milioni previsti dal progetto italiano. L’inadeguatezza della risposta europea è stata poi confermata chiaramente dalle cifre relative al numero di vittime provocate dai naufragi nel Mediterraneo nell’ultimo anno e mezzo: circa 3500 per il 2014, e ben 1600 nei soli primi quattro mesi del 2015.
Volendo tentare una riflessione a riguardo, l’inefficacia dei provvedimenti presi dall’Unione sembra rappresentare la conseguenza dell’ormai naturale tendenza generale a considerare il tema dell’immigrazione come qualcosa di scomodo, se non una sorta di piaga da dover estirpare, o addirittura un capro espiatorio che maschera soltanto altre problematiche di diversa natura.
Risuonano sorprendenti, seppur in negativo, le parole pronunciate da Jean-Claude Juncker, che parla a nome di una Commissione Europea “profondamente frustrata dagli sviluppi nel Mediterraneo”. Cos’è stato a scatenare questo profondo senso di frustrazione? La dimensione impressionante del numero di morti che rimarranno per sempre celati dalle acque del nostro mare? Per rimanere impressionati sarebbe stato sufficiente fare la somma delle vittime provocate dalle traversate della speranza degli ultimi due anni, senza il “bisogno” di sentirsi ancora una volta attoniti, impotenti, e quasi paralizzati di fronte a quest’ultimo sconcertante numero.
Lo stato attuale dell’impegno europeo si dimostra insufficiente per vari ordini di motivi. La superficialità spesso dimostrata dalle istituzioni mal si concilia con i valori e gli obiettivi più rappresentativi dell’Unione, che parlano di pace, di sicurezza internazionale, di sviluppo democratico e di rispetto dei diritti umani nel mondo.
All’atto pratico, l’assenza di una vera e propria politica migratoria comune (nonostante gli stessi Trattati la prevedano), lascia giocoforza in balia di loro stessi i Paesi direttamente coinvolti dagli sbarchi. Non parliamo soltanto di Italia, ma di tutti i Paesi della sponda nord del Mediterraneo, ridotti ormai allo stremo delle loro forze.
In secondo luogo viene così snaturato il senso stesso dell’esistenza dell’Unione, sviluppatasi a partire dalla CECA nell’immediato dopoguerra con la ferma volontà di costituire un’entità, dapprima economica e poi politica, che avesse il primario obiettivo di evitare anche la più remota possibilità di ricreare le condizioni che avevano portato al secondo conflitto mondiale. Si trattò di una risposta puntuale arrivata davanti all’evidenza di circostanze storiche ben precise.
Quali sono le circostanze del nostro tempo, che danno un senso all’esistenza di un’istituzione qual è l’Unione Europea? Affinché questa continui ad esistere, e lo faccia in modo tale che non sia privo di scopo, necessita un’opera di legittimazione costante, che non può far riferimento esclusivamente alle circostanze del passato.
L’Unione Europea del presente è un’istituzione in permanente interrelazione con il resto del mondo, che si traduce tra l’altro in un rapporto sempre più stretto e reciproco con i paesi del continente africano, in molti dei quali è in corso un processo di cambiamento quasi rivoluzionario, destinato a protrarsi ed evolversi ancora per molto tempo.
Il primo compito dell’Unione in questo senso è e deve essere, senza alcuna possibilità di rinvio ulteriore, la realizzazione di un’effettiva politica migratoria comune che vada oltre le reticenze dei singoli governi, e che abbia come punti fermi operazioni più efficaci e realmente congiunte di salvataggio in mare, di revisione delle politiche di asilo e di accoglienza, e di interventi diplomatici nei Paesi sconvolti da guerre e crisi umanitarie.
Lasciare ancora che migliaia di persone vengano inghiottite dal mare e non possano beneficiare del loro legittimo diritto a sperare in migliori condizioni di vita, equivale ad un fallimento sul piano politico,e ancora prima sul piano civile e umano, che un’istituzione democratica sovranazionale del calibro dell’Unione Europea non può più permettersi di portare avanti.
Alice Masoni