Nel suggestivo locale unTubo si sta concludendo il soundcheck. Entriamo e troviamo Simone Alessandrini, classe 1983, sassofonista e compositore, appoggiato alla sedia intento ad ultimare i dettagli. Decidiamo di accomodarci all’esterno, complice il clima estivo, per fare due chiacchiere.
Inizia così la nostra avventura alla scoperta di Storytellers, il suo album d’esordio, uscito per Parco della Musica Records. Un concept album che vuole far rivivere la storia di personaggi che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale, con i quali il musicista è entrato in contatto.
La formazione vede Simone Alessandrini al sax alto e soprano, Antonello Sorrentino alla tromba, Riccardo Gola al basso elettrico ed effetti, Riccardo Gambatesa alla batteria e Dan Kinzelman al sax tenore e clarinetto.
Simone, prima volta che suonate a Siena?
Siena è una città che ho visitato spesso per piacere, ma è la prima volta che ci suono. Invece, Riccardo (Gambatesa, ndr) il batterista, Federico e tutti gli altri hanno frequentato Siena Jazz, cosa che io, con mio grande rammarico, non ho fatto.
Sappiamo che sei nato a Roma e hai vissuto a San Felice Circeo: quanta Roma, quanto del tuo territorio c’è nell’album?
Praticamente tutte le storie che ho raccontato nel disco sono ambientate intorno alla zona del Circeo a Roma. Non è stata una scelta ma una casualità, me l’hanno fatto notare in un secondo momento.
Ci domandavamo come hai fatto a conoscere tutti questi personaggi?
Tutto è nato dal racconto di un amico sui suoi nonni, che ispirò un pezzo. Poco dopo ho trovato per caso alcune foto di mio nonno che aveva fatto la Campagna d’Africa e, senza volerlo, ne aveva fatto un reportage.
Questo mi spinse ad ampliare la ricerca, a cercare altre storie, a intervistare i sopravvissuti. Alcune storie le ho trovate nella mia famiglia, ad esempio quella del mio bisnonno materno, protagonista di una vicenda assurda: era riuscito a nascondere un maiale, unica fonte di cibo, ma nel momento in cui stava per ammazzarlo, il maiale iniziò a gridare, attirando i tedeschi.
Disse, allora, alle donne di casa di allestire una finta veglia funebre per lui, e di mettersi a piangere così forte da coprire le urla del maiale (sembra una commedia, ma è una storia vera, ride).
Non lo considero, però, un un disco dedicato alla guerra, ma piuttosto all’umanità. Viene messo in risalto il lato umano, la passione, la gelosia.
Come va ascoltato questo album?
Non volevo fare la colonna sonora della storia, è la storia che dovrebbe fare da cornice. Ma, alla fine, ognuno è libero di immaginare e di attribuire il suo significato.
Questo primo album, abbiamo notato, è uscito di venerdì 17.
Di novembre. Abbiamo provato a farlo uscire alle 17, ma non ci siamo riusciti (ride). È stato un caso, però dai, sfidiamo la sorte.
Questo è il primo album interamente a nome tuo.
Sì, dovrebbe essere il primo di una serie. L’obiettivo è una serie di concept album, sviluppare una storia diversa in ogni disco. Ora stiamo lavorando al secondo, piano piano.
Qualche anticipazione?
Sì, il tema sarà la follia, quindi direi che c’è l’imbarazzo della scelta. C’è tanto materiale, con molta calma ci stiamo lavorando, anche perché ora siamo molto impegnati con i live.
Dove sei stato?
Abbiamo suonato a Brescia, Napoli, Firenze, Terni, Roma, Latina e a maggio andremo in Veneto. Per questa estate ci stiamo organizzando per l’estero.
Questo album ti ha aiutato ad incanalare anche le emozioni?
Sì, la scrittura dei brani è stata terapeutica. Anche se è una tematica triste, si cerca di trovare un lato per sdrammatizzare: questo me l’hanno trasmesso le persone che ho intervistato.
Ad esempio, Sor Vince’, il protagonista del primo brano, è un uomo realmente esistente, ancora vivo, che ho incontrato a Garbatella, un quartiere di Roma.
Mi ha parlato dei “bei tempi della guerra”, di come abbia fatto molti soldi durante quel periodo. Parla della guerra come un momento in cui si lavorava, perché lui si ritrovò, a 13 anni, a contrabbandare sigarette, trafficare prostitute, a guadagnare cifre spropositate.
Ma questo Sor Vince’ lo sa che è diventato un brano?
No, assolutamente. Lui si vergognava anche di essere intervistato, ma poi l’ho convinto (ride).
Sono stato una mattina intera ad ascoltare le sue storie. Lui diventa nel mio brano il personaggio romano tipico di quel periodo lì, quello che vive alla giornata.
L’album parla tanto della resistenza
Quel periodo storico mi appassiona. Sono anche contento che questo disco esca ora, in un momento storico un po’ particolare. Alcune cose accadono per caso, atre no.
Per esempio, la settimana prossima suoniamo a un festival a Latina, e presenteremo questo disco a Palazzo M. Quando mi hanno chiesto di scegliere la data del concerto, non avevo dubbi che avrei proposto ovviamente il 25 aprile.
Non voglio, poi, necessariamente fare “il gruppo schierato politicamente”, però è un modo per sensibilizzare, per lasciare un messaggio. La mia musica non ha testi ma racconta comunque cose che sono accadute sul serio.
Perché il titolo in inglese? Storie italiane, titoli in italiano e poi…
In realtà Storytellers vuole essere il nome del gruppo e suonava meglio in inglese. I titoli delle canzoni suonavano invece meglio in italiano.
(Storytellers è la canzone che chiude l’album omonimo che, a sua volta, dà il nome al gruppo. La parola gli piace leggermente…)
Tralasciando per un momento la musica jazz, cosa ascolti per esempio quando vai in macchina?
Ultimamente ascolto meno jazz. Sono incuriosito dalla nuova scena cantautoriale e non mi dispiace Brunori Sas. Ascolto anche Motown, funk anni ’60, il mio gruppo preferito sono i Led Zeppelin.
Il jazz è l’ultima cosa che ho iniziato a suonare e ascoltare, ho iniziato con la musica classica, poi sono passato da auto didatta alla chitarra elettrica, e da lì ho intrapreso il mio percorso fino al jazz.
Secondo te come è cambiata dagli inizi fino ad ora la figura del jazzista e il jazz in generale?
Il jazz, secondo me, non è un genere musicale, ma un linguaggio, una filosofia musicale, un modo di intendere la musica.
Se guardiamo alla storia, Charlie Parker o Coltrane facevano cose che non erano considerate jazz agli inizi. Se uno utilizza degli elementi di quel linguaggio e li fonde con altro, ovviamente con consapevolezza, sta facendo jazz.
Ora c’è un ritorno all’R&B, all’Hip Hop, una ricerca con un’impronta più ritmica che melodica. Dicono che il jazz è finito, ma magari è solo saturo un certo tipo di linguaggio e se ne cercano altri.
Abbiamo sempre sentito dire che il jazz si deve sentire dal vivo, ma a qualcuno piace più registrato. Cosa ne pensi?
Secondo me è più bello dal vivo. Ci sono delle cose più interessanti sul disco, come il prog (rock progressivo). Ma parlando di jazz, in un concerto ascolti una cosa che non sentirai mai più, unica.
Qui arriva il trombettista, Antonello Sorrentino, e comincia una discussione coinvolgente.
Sorrentino Un tempo avrei detto che il jazz era più bello nei dischi, ora dico dal vivo. È sempre più difficile trovare dischi che ti colpiscano, l’Armstrong dei miei 10 anni non tornerà, invece dal vivo provi emozioni.
Alessandrini Sono andato a vedere il concerto di Brad Mehldau ho pensato: questa sera ha fatto delle cose preziosissime, preziose proprio perché irripetibili.
Concerti che vi sono piaciuti?
Sorrentino Io ho sentito John Scofield a Roma qualche tempo fa.
Alessandrini Io vado spesso ai concerti ma è sempre più difficile rimanere sorpresi. Mi è successo recentemente con Brad Mehldau, ma siamo troppo presi da mille cose diverse e dopo due giorni ci siamo già dimenticati tutto.
Sorrentino Un album funziona in modo particolare: per esempio, il batterista registra la sua traccia, il contrabbassista registra la sua magari un anno dopo a New York, poi arriva un altro che si trova su una stazione orbitante e registra la sua parte. È un po’ come le modelle, che le vedi uscire dall’acqua, bellissime, ma bisognerebbe vederle la mattina appena sveglie. Con il live sei molto più a nudo, non hai scappatoie.
Alessandrini Rimango sempre affascinato dall’approccio che hanno i grandi musicisti con il palco. Mi è capitato di vedere dietro le quinte molti grandi artisti, non più ragazzini, apparentemente stanchi prima del live, data l’età. È impressionante la trasformazione che hanno non appena salgono sul palco e quando entrano dentro la musica.
La discussione continua con dischi preferiti e battute, ma sono cose che ci teniamo per noi.
Quel che è certo è che torneremo a sentirli.
Giulia Nicolini & Silvia De Martin Pinter.