La fiamma della tradizione rivive con Spira Mirabilis nel concerto di apertura di Micat in Vertice

Tra dialogo, democrazia e rinnovamento della tradizione: Spira Mirabilis per la prima di Micat in Vertice


Fila 13 posto 165: è da qui che ho assistito al concerto di apertura della 95esima edizione della Micat in Vertice dell’Accademia Chigiana. Credevo che la visibilità fosse stata pessima, ma mi sbagliavo. Sul palco davanti a me sarebbe salita di lì a poco l’orchestra Spira Mirabilis, che avrebbe interpretato la Sinfonia n.1 di Johannes Brahms. Senza direttore.

La curiosità, in sala, era molto alta, così come ampia era la varietà di persone. Ad una prima di stagione ci si può aspettare di tutto, e tutto c’è stato: un vasto repertorio di vestiti, per esempio, che andava dall’abito da sera bianco della signora smarrita alla ricerca del posto al jeans e maglione dell’uomo seduto con la moglie accanto a me. Alcuni ancora si ostinavano a mantenere un certo tono, senza rassegnarsi al cambiamento di mentalità: non è più strettamente necessario andare ad una prima in abito da sera e pelliccia (a meno che, ovviamente, tu non sia alla Scala, ma anche lì la questione è opinabile).

Alla musica non importa granché come ti presenti: le basta solo che tu sia predisposto all’ascolto consapevole. Questa “democrazia della musica” si è espressa in molte forme: nel jeans e felpa dello studente universitario nel loggione; nel mio compagno di corso, seduto in platea con me, che ha pagato 5 euro per il suo biglietto e siede tra chi ne ha spesi 25; nel mio biglietto con scritto “omaggio”; ma soprattutto nell’idea di fondo di Spira Mirabilis: ascoltarsi a vicenda e costruire il brano insieme.

Le luci si abbassano ed entra l’orchestra, che si auto-presenta e ribadisce ancora una volta la loro scelta di suonare senza direttore; poi ci invita a rimanere dopo il concerto per uno scambio di domande ed impressioni. Finalmente il concerto può iniziare.

Un’orchestra senza precedenti mette in scena il dialogo

La particolarità di un’orchestra come Spira Mirabilis è che ciascuno dei suoi componenti comunica con l’altro utilizzando un linguaggio fatto di centinaia di minuscoli segni che un occhio poco attento difficilmente riesce a cogliere: alzate di sopracciglia, sorrisi, movimenti dell’archetto o dello strumento, respiri, occhiate. Ciascuna sezione sa esattamente quando l’altra ha finito o deve iniziare, e a che punto della partitura si trovano, quale accordo deve essere suonato dall’intera orchestra in quel momento… Anche le pause sono tutte perfettamente calibrate, i cambi di tempo non sono mai precipitosi; in un brano difficile come la Sinfonia n. 1 è complicato ottenere la perfezione formale anche con un direttore. Non è detto che riesca, ovviamente, ma questo non è poi un problema.

L’assenza di un direttore, poi, permette di concentrarsi sui movimenti dei singoli musicisti: avere qualcuno davanti a tutti che si sbraccia distoglie l’attenzione dalla spalla del primo violino o dalle espressioni dei contrabbassisti. Per la prima volta in vita mia, per esempio, ho potuto concentrarmi per dieci minuti buoni sulle bacchette dei timpani. Alla fine dell’ultimo accordo la platea ha applaudito tutta l’orchestra, e tutta l’orchestra si è inchinata e si è presa il merito dell’interpretazione. I musicisti vanno a posare gli strumenti con la promessa che sarebbero tornati subito: il question time, come lo chiamano loro, può iniziare.

Spira Mirabilis durante il question time

Intervista collettiva con l’orchestra

Colpisce che molte persone abbiano deciso di andarsene e non cogliere quest’occasione irripetibile: quanti di noi, dopo un concerto, hanno sempre voluto fare delle domande al musicista che si è appena esibito? A quanto pare pochi; ma non è compito mio giudicare. Spira Mirabilis ci racconta che l’idea nasce proprio da questa esigenza: anche loro, da bambini, avrebbero voluto tempestare di domande gli orchestrali, e per questo motivo hanno deciso di essere i primi a porre questa opportunità per il pubblico.

Innanzitutto, si tende a pensare che sia il primo violino a prendere le veci del direttore. Effettivamente può farlo, ma non è questo il caso: qui, la concertazione è una responsabilità collettiva. La loro non è una scelta anarchica, anzi, apprezzano talmente tanto il lavoro del direttore che decidono di provare sulla loro pelle. E’ come se, suonando senza direttore, ne omaggiassero la figura.

Anche il pubblico ha la sua parte

Ma se manca questa figura, come può Spira Mirabilis raggiungere un equilibrio valido per un concerto? La risposta è tanto semplice quanto affascinante: anche il pubblico viene coinvolto, e anche lui diventa direttore d’orchestra. Prima di arrivare sul palco, però, è necessario che ciascun musicista ascolti l’altro sulla base della partitura. Il segreto, in pratica, è moltiplicare gli ascoltatori e renderli partecipi uno per uno. Perché questa scelta? Beh, perché in fondo ciascun brano è un racconto in musica, e per essere tale deve essere vario. Per fare questo deve esserci un modo comune di parlare con la musica, uno stesso linguaggio. E’ chiaro che non sempre l’obiettivo viene raggiunto, ma non è un problema: che senso avrebbe continuare a suonare se si riuscisse ad arrivare ad una fine, ad un apice interpretativo? L’unico vero problema di Spira Mirabilis è la risposta alla domanda “cosa vogliamo dire con questa musica?”.

Quando la critica adora le ceneri

Il messaggio non viene sempre compreso però, soprattutto dalla critica. L’orchestra viene spesso accusata di non essere “pura” e “unitaria”: non è proprio così, perché loro più di chiunque altro utilizzano la partitura come base di qualsiasi interpretazione. Ad alcuni musicisti (e ad alcuni critici) questo non piace: pensano che ciò limiti la capacità espressiva del singolo orchestrale o della sezione. Ascoltando senza troppi pregiudizi un concerto di Spira Mirabilis ci si rende conto, dopo sole dieci battute, che queste sono solo accuse infondate. Comunque sia, e lo ammettono loro, la critica li ignora completamente. Mi viene da chiedermi per quale motivo; forse perché sono ancora legati ad un’idea ferrea di tradizione? Mahler direbbe però che “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”.

Se non lui, chi?

Una cosa in particolare, però, incuriosisce il pubblico: perché Brahms? E come ci sono arrivati alla Sinfonia n.1? Il percorso per arrivare sul palco del Teatro dei Rozzi è stato lungo: sono partiti con Beethoven, compositore che scrivere in maniera dettagliata ma che lascia molto spazio al dialogo e all’interpretazione del singolo, poi si sono cimentati nello studio degli strumenti classici e nelle masterclass di musica di Haydn e Mozart, in modo da creare un bagaglio di conoscenze comuni. Nel loro percorso trovano posto anche Schönberg e Richard Strauss, ma anche brani su commissione di compositori contemporanei e i più “classici” Schubert, Mendelssohn e Schumann.

Per quanto riguarda Brahms, all’inizio erano molto scettici per le difficoltà che una sua partitura possiede, ma la vicinanza l’uno all’altro, la maturità e la presenza di tantissimi riferimenti comuni li hanno convinti a tentare l’impresa, regalandoci un concerto come quello di ieri sera. E per quanto riguarda il futuro? Spira Mirabilis non si pone un obiettivo: la vita di un musicista va avanti solo se continua a studiare. L’unica novità è lo studio di una partitura nuova o già rivista.

La formula magica per entrare

Ma come si entra in Spira Mirabilis? La selezione è prudentissima: di solito si chiamano persone che già si conoscono e che si sa essere in grado di fare un progetto del genere. L’aspirante orchestrale deve prima di tutto assistere a qualche prova per rendersi conto di cosa si tratta e per capire se è in grado o no di farlo. Questo non ha limitato la multiculturalità: oltre a un nutrito gruppo di italiani, Spira Mirabilis annovera tedeschi, spagnoli (e catalani), portoghesi, danesi, olandesi, coreani, americani, inglesi, greci, francesi, austriaci e svizzeri.

Spira Mirabilis è, nella mia opinione, l’esempio più perfetto di rinnovamento della musica classica. In loro c’è rispetto per la tradizione ma voglia di crearne di nuova; volontà di creare un’interpretazione comune ma allo stesso tempo di ascoltare ciascuna opinione; infine, coinvolgimento attivo anche del pubblico. Un loro concerto è un’esperienza totalizzante, ti fa sentire davvero parte di qualcosa.

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