Un’altra considerazione sulla lite Sarri – Mancini

Verso il termine della partita tra Napoli e Inter, valevole per il posto in semifinale della Coppa Italia, il tecnico del Napoli Maurizio Sarri ha apostrofato il collega Roberto Mancini definendolo un «frocio e finocchio». Risentitosi per le offese, l’allenatore dell’Inter ha dichiarato il fatto ai microfoni di Rai Sport, abbandonando poi l’intervista polemicamente. L’evento ha avuto, com’è naturale che sia, una forte eco mediatica che ha polarizzato l’opinione pubblica tra sostenitori di Sarri, che ritengono che queste cose accadano in ogni campo e debbano rimanerci, e sostenitori di Mancini, convinti che l’atto di denuncia sia stato sacrosanto.

Al di là delle considerazioni più banali, come “Mancini spione” o “Sarri il solito toscano con la parolaccia facile”, ci sono un paio di elementi della vicenda che saltano all’occhio. Intanto, la caduta del mito Sarri. La storia di Maurizio Sarri è una di quelle storie che non può non generare simpatia per chi è amante del calcio: impiegato di banSarrica e allenatore per passione fino ai 40 anni, decide allora di lasciare il lavoro per dedicarsi anima e corpo alla sua passione. Dopo una lunga gavetta nelle serie minori, entra nel calcio che conta con la promozione dalla serie B alla A conquistata alla guida dell’Empoli per poi trovarsi, dallo scorso anno, alla prima grande chiamata: diventa così l’allenatore del Napoli, con il quale si trova attualmente in testa alla classifica del campionato. In un mondo spesso opaco come quello calcistico, un uomo che ha mangiato così a lungo la polvere nei campi dissestati della provincia diventa un eroe. Ma se tanto tempo ci vuole a salire sul piedistallo immediata è la caduta; oggi Maurizio Sarri non è più l’eroe ma si è rivelato uno dei tanti. A questo punto, la vera domanda è: perché ci stupiamo quando il mito sportivo (o dell’intrattenimento se preferiamo) non si dimostra anche un campione di moralità? Perché abbiamo bisogno che il calcio sia anche maestro di vita? Perché riduciamo lo sport a tribuna politica, quando sappiamo benissimo che i personaggi che lo compongono non hanno la minima preparazione (o l’interesse) per affrontare temi socialmente sensibili?

Queste domande mi portano ad una seconda perplessità, legata questa volta all’altro protagonista della vicenda. Roberto Mancini ha ritenuto giusto dichiarare l’accaduto, cosa del tutto lecita. Sono le parole (poi riprese anche dai giornalisti) a suscitare dei dubbi. Mancini ha definito Sarri «razzista» e dichiarato che «[Sarri] non ha offeso me ma tanti che soffrono ogni giorno», la stampa ha incalzato definendo gli insulti «omofobi». In questo caso, il calcio diventa ancora cartina tornasole dell’impreparazione su di un tema nazionale il cui dibattito arranca da tempo, con il ddl Cirinnà (sulle unioni civili) alle porte della discussione in parlamento. Il fenomeno descritto sembra opposto ma è speculare a quello trattato poche righe fa: in questo caso il calcio stesso vuole diventare promotore di civiltà dimostrando, tramite le parole di Mancini, che non è più disposto a tollerare l’insensibilità su questi temi. Ma sollevarlo in un episodio del genere dove l’insulto di Sarri, per quanto di cattivo gusto, non rientrava probabilmente nella sfera omofobia e men che meno in quella razzista (e in questo caso è lecito chiedersi se questa parola si sia ormai estesa a qualsiasi forma di discriminazione) rischia di sminuire un intero dibattito e far perdere peso a parole forti, da usare con parsimonia per non privarle della loro forza sensibilizzatrice.

A questo punto ci si può chiedere: ma allora, chi ha ragione? Nessuno, probabilmente. Come in molti dei dibattiti nostrani, calcistici ma non solo, la comune inadeguatezza dei protagonisti dovrebbe rendere più facile la scelta di non parteggiare per l’uno o per l’altro schieramento.

Leonardo Marinangeli

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