Chiunque abbia visto o letto il notiziario anche solo una volta in questi giorni sa che mercoledì scorso, 7 dicembre, c’è stata la prima alla Scala di Milano. Un evento importantissimo, che vede ogni anno la presenza di nomi illustri che, capendo o meno qualcosa di musica, accorrono sul tappeto rosso del foyer indossando abiti splendidi. Non ci chiederemo malignamente se siano stati lì per la musica, per farsi notare, o per far vedere che possono permettersi il biglietto, né commenteremo gli outfit dei presenti. Piuttosto, parleremo della vera protagonista della serata: la Madama Butterfly di Giacomo Puccini (Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924), diretta per l’occasione dal maestro Riccardo Chailly e con la soprano Maria Josè Siri nel ruolo della protagonista e il tenore Bryan Hymel nei panni di Pinkerton.
Iniziata nel 1901 e portata a compimento nel 1903, questa “tragedia giapponese” (come scritto sul frontespizio del libretto) in tre atti (in origine erano due) debuttò l’anno seguente sempre alla Scala: un fiasco clamoroso. Come mai? Forse perché la storia descrive una delle più classiche conseguenze dell’imperialismo occidentale? Oppure chi era presente non riuscì a cogliere la grandezza di quest’opera? O magari volevano solo screditare il povero Puccini? Nessuno lo sa. Sappiamo però che una seconda versione, di poco differente dalla prima, trionfò a Brescia appena tre mesi dopo.
Ma qual è la trama che ha scandalizzato così tanto il pubblico della Scala? Mettetevi comodi e se volete preparate anche i fazzoletti, perché la storia di Butterfly è veramente triste. All’inizio del XX secolo Pinkerton (tenore), un ufficiale della marina degli Stati Uniti, sbarca a Nagasaki e sposa una geisha quindicenne di nome Cio-Cio San (soprano), il cui nome significa letteralmente “Madama Butterfly”, prendendosi tra l’altro il diritto di ripudiarla dopo appena un mese. Difatti, da bravo marito fedele ed innamorato, la abbandona incinta e torna in patria. La povera (e illusa) Butterfly attende imperterrita per tre anni il ritorno dell’amato, continuando a ripetere a tutti la sua incrollabile fiducia. E’ degno di menzione il nome del bambino nato da quell’infelice unione: Dolore. Un nome molto allegro, non trovate?
Incredibile, ma lei aveva ragione. Il sant’uomo infatti ritorna, ma non da solo: conduce al braccio la sua giovane mogliettina americana, sposata regolarmente negli Stati Uniti. E non solo ritorna per far vedere a Butterfly quanto poco ci tenga a lei, ma ha anche un altro obiettivo: riprendersi il figlio, della cui esistenza è stato messo al corrente dal console Sharpless (baritono). Butterfly viene così messa di fronte alla realtà dei fatti: ogni sua speranza viene distrutta, e decide di andarsene nel modo più silenzioso e discreto possibile. Dopo aver bendato il figlioletto ed essersi nascosta dietro un paravento, si uccide tagliandosi il collo secondo il rituale jigan. Quando Pinkerton si precipita nella stanza per mostrare un po’ di pentimento è già troppo tardi: la povera ragazza è morta, mentre il bambino, ancora bendato, gioca con una bambola e una bandierina americana.
Una storia molto triste, non trovate? Aspettate di sentire le musiche: alcune di esse sarebbero in grado di sciogliere anche i cuori di pietra. Ma d’altronde si sa: quando si parla di Puccini dobbiamo quasi sempre tenere una grossa scorta di pacchetti di fazzoletti a portata di mano. Adesso vi farò qualche esempio, ma prima parliamo molto velocemente di un dettaglio tecnico molto importante: l’organico orchestrale, ovvero l’insieme degli strumenti dell’orchestra, che prevede:
- 3 flauti (III. anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti;
- 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, trombone basso;
- timpani, tamburo, triangolo, piatti, tam-tam, grancassa, campanelli a tastiera, tam-tam giapponesi (ad libitum);
- arpa;
- archi.
Andiamo ad ascoltare adesso due dei pezzi più conosciuti della Madama Butterfly: l’aria Un bel dì vedremo, cantata da Butterfly nel secondo atto (Spotify e YouTube), e il Coro a bocca chiusa sempre del secondo atto (Spotify e YouTube).
Un bel dì vedremo è la dichiarazione di fede di Butterfly (troverete il testo completo, e qualche informazione in più, qui): in quest’aria la giovane fantastica sul giorno del ritorno dell’amato. La melodia è costruita su brevi sezioni; in particolare, la prima, di 8 battute, che si apre sulle parole “Un bel dì vedremo” si ripete sulle parole “[per non mo]rire al primo incontro”, dove c’è tra l’altro un improvviso fortissimo dell’orchestra che sembra preannunciare il suicidio di Butterfly, e si ripete anche nel finale. Cercate di immaginare una geisha giovanissima che si rivolge alla sua cameriera, sul volto un’espressione di seria fiducia ma negli occhi tantissime lacrime amare. In fondo lei lo sa che Pinkerton non tornerà mai, ma non vuole ammetterlo. Se ne avete voglia siete autorizzati a mettervi una coperta addosso a uso kimono e a cantare alla bell’e meglio, come faccio di solito io.
Il Coro a bocca chiusa, invece, non ha testo. L’orchestra accompagna un coro di voci femminili che, a bocca chiusa appunto, esprime compatimento per la sorte di Butterfly. Di solito viene cantato da un gruppo di geishe che osserva la ragazza la quale attende l’arrivo di Pinkerton con indosso l’abito da sposa. Le voci potrebbero essere quelle degli avi di Butterfly, arrabbiati con lei perché ha rinnegato la sua fede per sposare un occidentale, o potrebbero essere quelle delle sue ancelle che segretamente la disprezzano. Una cosa è certa: tutti, tranne Butterfly, sanno che le sue speranze verranno vanificate.
Certo, vedere quest’opera alla Scala sarebbe stato molto interessante. In caso vogliate rimettervi in pari, troverete l’opera che ha aperto la stagione scaligera qui. Noi invece ci rivedremo tra una settimana!
Federica Pisacane