Not quite my tempo: la recensione di Whiplash

Come si dice a Siena, leviamo subito il vin da’ fiaschi e partiamo dai dati di fatto: Whiplash è un film bello e ben confezionato, su questo i dubbi sono veramente pochi. Non lo dice solo chi vi scrive: è opinione apparentemente consolidata sia tra il pubblico che tra la critica che l’opera prima di Damien Chazelle sia un racconto avvincente e, vista la giovane età del regista, un mezzo miracolo di tecnica cinematografica. Presentato al Sundance 2014 e subito incoronato dai premi della critica e del pubblico, Whiplash ha trascorso l’ultimo anno mietendo successi a destra e a manca, concludendo la sua marcia trionfale solo pochi giorni fa, quando nella notte losangelina si è portato a casa tre Oscar (miglior attore non protagonista, miglior montaggio, miglior sonoro).

Successo su ogni fronte, quindi, per la storia di Andrew, giovane batterista che aspira all’immortalità artistica e che si scontra con i metodi brutali dell’insegnante Fletcher?

No, dice una fetta molto letta della critica cinematografica italiana.

Sì, dico io.

Entriamo nel merito: al netto del giudizio positivo sulla sua caratura tecnica più o meno unanime, è curioso vedere come nel Belpaese più che nel resto del mondo si siano spesi giudizi negativi se Whiplash. Si va dall’opinione comunque misurata di Bordone che vede mancanza di realismo nei metodi didattici rappresentati e una fondamentale assenza di empatia per i personaggi, a un Fofi che dà dei “gonzi di destra” agli spettatori entusiasti  fino a uno sconcertante Grandi che scomoda l’espressione “ideologicamente sbagliato.

Quale sia il motivo per il quale un film debba essere giudicato sempre per il suo significato proprio non si capisce. Posto che è inaccettabile che la differenza tra un prodotto e un’opera d’arte la faccia necessariamente il messaggio, Whiplash è un film più “facile” di quanto sembri, non si presta realmente a letture ideologiche perché non ci crede neanche lui, in ciò che racconta: i protagonisti sono alieni incompresi e incomprensibili, convinti delle loro azioni e estranei dal resto dell’umanità, e Chazelle delle loro scelte né si compiace, né si fa partecipe, crea piuttosto una vicenda senza morale di una coppia impegnata in una lucida allucinazione a mille anni di distanza dalla civiltà che li circonda.

La regia è asettica e neutrale, asciuttissima, e viene coadiuvata da un montaggio (da Oscar) ai limiti del didascalico, che plasma letteralmente la vicenda, scolpendo il ritmo del film e concentrandosi solo sui particolari significativi e sufficienti.

Di certo non possiamo parlare di un film sul jazz, perché la musica è solo un pretesto per raccontare una prestazione in tutto il suo fare atletico e muscolare. Lo stesso “insegnante” non dà un precetto che sia uno, sarebbe quasi meglio parlare di un motivatore.

Entrambi gli attori protagonisti sono nati per i ruoli che interpretano, basti vedere come la faccia da schiaffi di Miles Teller – già primattore sfigato di Project X e prossimo Mister Fantastic nel reboot dei Fantastici 4 – renda credibile questo talento strafottente alla cerca spasmodica della perfezione. Sulla prova di J.K. Simmons poi non possiamo che strafare con gli applausi: il suo Fletcher luciferino, premiato con l’Oscar per migliore attore non protagonista, ha il volto scavato in una smorfia arcigna per la frustrazione di una vita, quella di non aver mai avuto un reale fuoriclasse da portare alla gloria. La reciproca, ammaliante e straniante attrazione che i due provano si consuma in una discesa infernale verso un destino cui entrambi anelano, un’ordalia che prevede un pegno fatto di sudore e sangue sulle pelli della batteria. I 400 calci fa giustamente notare come l’impianto della storia sia più simile a quello di un film di azione o dell’orrore che a un dramma interpersonale: Andrew “è Rocky che, se non avesse conosciuto Adriana, probabilmente si sarebbe fatto un culo ancora maggiore e avrebbe steso Apollo già al primo match”. Ed è proprio questa caratteristica che, secondo chi vi scrive, deve farci ignorare tutte le possibili letture ideologiche: no, non c’è nello sguardo del regista la voglia di avallare un’idea tutta americana di successo con fatica, perché lo scopo del film è mostrarci una vicenda per il piacere di un’esperienza fisica e avvincente.

11054570_10206127236999863_687151787_o

Fondamentalmente, Whiplash è una lucidissima lettura di uno dei temi più frequentati del cinema, quello dell’allievo e del maestro, raccontata con grandi attori e un amore sconfinato nei confronti del medium che si maneggia. Ne è testimonianza l’ultimo quarto d’ora, che somiglia più a un incontro o a una sparatoria che a un concerto: la vicenda qui esplode con tutta la sua potenza tellurica e travolge con una raffica di inquadrature strettissime sull’allievo e l’ormai ex maestro, che sublimano la loro intesa nel momento in cui la perfezione è raggiunta e il resto del mondo è totalmente escluso, tagliato via dal reciproco sguardo fisso.

10999756_10206127237159867_248915548_o

L’allucinazione è sempre stata realtà, e si chiude nel momento in cui il carrello che saluta il film si fionda su un Andrew gasatissimo, che potrebbe ancora fare altri dieci c oncerti e al quale degli applausi non potrebbe fregare di meno. E infatti per la standing ovation rituale, per i baci con la fidanzata e per le immagini da album di famiglia non c’è spazio nel finale: la vicenda sta tutta lì in quel carrello da Fletcher a Andrew, e lì si conclude. In un certo senso Whiplash è l’antitesi del concorrente agli Oscar Birdman: laddove quest’ultimo vive alla ricerca disperata della stima e del giudizio altrui, i protagonisti di Chazelle necessitano e si nutrono della propria stessa insoddisfazione frustrata dalla ricerca di un Uno che sanno con certezza che raggiungeranno.

È una storia “di destra”? Lo sarebbe, se fosse alimentata da un certo grado di compiacimento, ma così non è: Whiplash è solo una storia, la vicenda del Palla di lardo kubrickiano che ammazza metaforicamente Hartman e nel farlo realizza le aspirazioni di entrambi; oppure è un Cigno nero dove l’ossessione, ancorché autolesionista, non sfugge mai al controllo della ragione; oppure ancora, semplicemente, Whiplash è una variazione sul tema di Karate Kid. Ed è bellissimo.

Nicola Carmignani

One thought on “Not quite my tempo: la recensione di Whiplash

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *