Kamelot – “Haven”

Nel panorama del symphonic metal, i Kamelot sono sempre stati un gruppo particolare ed in grado di dare un’interpretazione molto personale degli stilemi del genere. Gran parte del merito di ciò è da ricercarsi nella voce del singer storico della band, Roy Khan, e in un songwriting capace di valorizzarne la teatralità e le numerose sfumature. Tuttavia, a seguito di vicende personali non troppo chiare, Khan ha abbandonato il gruppo nel 2011: il successore, dopo alcuni tour con Fabio Lione (voce, tra gli altri, di Rhapsody of Fire e Vision Divine), è stato individuato in Tommy Karevik, già frontman del gruppo prog-metal dei Seventh Wonder. Al nuovo arrivato si è presentato un compito a dir poco gravoso: sostituire una delle voci più caratteristiche del metal di matrice sinfonica. Dopo un album di ambientamento, quel Silverthorn che risultò ai tempi sì sufficiente, ma nulla più, la band americana ci riprova con Haven: come si sarà comportato Tommy? E, in generale, che disco ci troveremo di fronte?

L’attacco è dei migliori: nessuna tediosa intro strumentale, ma un brano come Fallen Star che dà subito il via alle danze. Aggressivo nella strofa, trascinante nella linea del ritornello: uno dei migliori del lotto. Il singolo Insomnia è sicuramente più “radiofonico” ed immediato dell’opener, ma è anch’esso un ottimo esempio di metal elegante e ben composto, complici anche le tastiere “futuristiche” di Oliver Palotai. Segue Citizen Zero che, dopo un’intro di chitarra, presenta un andamento marziale che a molti ricorderà March of Mephisto, brano di apertura del capolavoro della band, The Black Halo. Il primo singolo estratto, Veil of Elyisium, ha indubbiamente un buon tiro ed è dotato di melodie trascinanti (bravissimo Karevik), ma non colpisce del tutto nel segno. Meglio la prima ballad di Haven, Under Grey Skies, che presenta il duetto di Tommy con la cantante dei Delain, Charlotte Wessels: un crescendo magistrale ed un finale davvero da brividi. My Therapy presenta le medesime tastiere di Insomnia, ma non risulta riuscita come quest’ultima: il secondo passaggio “quasi a vuoto” del disco. Dopo l’intermezzo Ecclesia, End of Innocence ci presenta alcune tra le melodie migliori di Haven: il ritornello, grazie anche al lavoro dei cori, emoziona. Da qui alla fine, troviamo una manciata di brani decisamente riusciti: Beautiful Apocalypse e Liar Liar risplendono grazie ai taglienti riff di Thomas Youngblood e alla solita perizia compositiva ed esecutiva; Here’s To The Fall è il secondo lento dell’album e presenta un’atmosfera cupa e drammatica, resa alla perfezione dal cantato di Tommy; infine (non consideriamo la strumentale Haven) Revolution vanta la collaborazione di Alissa White-Gluz e del suo cantato in growl, per uno dei brani più cattivi mai scritti dai Kamelot.

Haven è un grandissimo disco. Rompiamo gli indugi per un lavoro che ci ha sinceramente emozionato, nonché spiazzato in positivo. Dopo Silverthorn, Karevik sta iniziando a trovare una sua dimensione all’interno del gruppo, grazie anche all’ottimo songwriting di Youngblood, che qui valorizza le grandi abilità del singer. Certo, lo spettro di Khan aleggia ancora, ma non potrebbe essere altrimenti: i Kamelot hanno acquisito, nel corso degli anni, uno stile riconoscibilissimo e assolutamente personale. Una cifra che resta ben presente, anche grazie alla indubbia somiglianza del timbro di Roy con quello di Tommy. Tuttavia, Haven presenta degli sprazzi di parziale rinnovamento del sound, insieme con un’ispirazione compositiva che sembra tornata quella degli anni d’oro del gruppo. I capolavori come The Black Halo e Epica restano lontani, ma questo Haven risulta essere una grandissima prova, per un gruppo che ha ancora molto da dire.

Giacomo Piciollo

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