Martedì 2 maggio, all’interno di Il Dio dei millennials, un ciclo di incontri organizzato dal Santa Chiara Lab riguardante il rapporto tra i millennials e la religione, il Professor Marco Ventura, docente presso il Dipartimento di Giurisprudenza della nostra Università, ha aperto il secondo seminario, dal titolo: Il Dio dei giovani musulmani.
Il Prof. Ventura ha subito presentato la giornalista Viviana Mazza, da undici anni circa nella sezione Esteri del Corriere della Sera, con alle spalle anni di esperienze di studio e ricerca negli Stati Uniti e in Egitto. Data la sua esperienza in Medio Oriente e i suoi continui viaggi, è sempre stata a contatto con il mondo musulmano e spesso ha indagato i vari comportamenti che i, o più o meno, credenti hanno con la realtà circostante.
Viviana Mazza ha spiegato che un terzo della popolazione con cui è entrata più spesso a contatto in queste aree, ha meno di quindici anni e vive la propria religione e tradizione islamica sotto le continue influenze e contrapposizioni del mondo occidentale. Una generazione che, in più, non sa più nulla delle scritture sacre, che viene sempre più esposta ad un mondo “superdiverso”.
Durante i suoi viaggi alla ricerca di testimonianze, la giornalista si è accorta che la spiritualità, più o meno presente nelle persone con cui discute, e la manifestazione della propria appartenenza culturale e religiosa, cambiano in base all’area geografica in cui crescono e vivono. In uno Stato a maggioranza islamica, come può essere il Pakistan, la scelta di coprirsi il capo viene considerata prettamente personale, al contrario di quanto succede in Stati come gli USA, dove il velo diventa uno strumento di difesa, quasi protesta politica. D’altra parte, è normale sentire il bisogno di affermare la propria individualità culturale e religiosa in uno Stato in cui si è la minoranza.
Uno dei problemi di cui si è discusso, che mai avrei definito tale, è il dichiararsi atei in Stati dove l’integralismo e il forte attaccamento alla religione islamica continuano a mietere vittime. Per esempio, fino a qualche tempo fa, nessuno avrebbe pensato di aprire una pagina Facebook per riunire gli atei egiziani, ma oggi esiste un profilo a riguardo che conta cinquantamila followers. Un’apertura, questa, dovuta sicuramente all’avvento di Internet, ma che certo mette in risalto il rischio a cui queste persone coraggiose vanno incontro.
Mazza, dopo qualche intervento del pubblico, ha messo anche in luce le molte ossessioni che sono state individuate come prettamente occidentali. Perché questa critica costante e questa apprensione per le donne velate o semplicemente dal corpo coperto? Perché forse è il primo fattore estetico che balza all’occhio, fa intuire cultura e religione di appartenenza e permette di delimitare bene gli spazi tra noi e qualcuno con cui crediamo di aver ben poco da condividere. Ma ci sbagliamo.
In fondo, non è detto che tutti i musulmani siano credenti o praticanti, come d’altra parte non lo sono i cattolici. Solo perché, per strada, non si vede nessuno mangiare o bere durante le ore del Ramadan, non vuol dire che dentro casa tutti lo osservino. Probabilmente è necessario capire la differenza tra il vivere appieno una religione, frequentando i luoghi sacri e credendo in quel Dio che più ci appartiene, e l’osservare gli insegnamenti religiosi perché parte di una tradizione culturale.
Infine, si è insistito molto sul concetto dell’essere culturalmente musulmani, nel senso di sentirsi parte di un certo stile di vita, nel seguire regole e atteggiamenti in accordo con lo Stato e l’ambiente religioso in cui si vive. Anche negli Stati dove per stereotipi si pensa che la libertà sia stata seppellita sotto i pilastri dell’integralismo, in realtà la religione viene percepita come una scelta personale, in mano al libero arbitrio della persona, e spesso vi si fa appello non per reale credenza ma solo come rivendicazione ad una appartenenza culturale.
Elisa Carioni