La pièce che ieri è stata rappresentata presso il teatro dei Rinnovati di Siena, ha richiesto da parte mia una lettura profonda della realtà interiore e spirituale, oltre che fisica.
Santo Genet , lo spettacolo di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza ieri ospitata, è stata un dolcissimo pugno nello stomaco, uno scossone nella fissa dimensione di ogni giorno, nel cimitero triste della crisi di valori e sentimenti.
Gli attori sono i detenuti del carcere di Volterra, che magistralmente hanno presentato una realtà colma di fiori, di colori, di santità e bellezza, marinai, travestiti, santi e madonne: il mondo di Jean Genet, scrittore e drammaturgo francese, autorevole e discussa voce del novecento. Omosessuale e cleptomane, tossicodipendente ed ergastolano, egli è vissuto ai margini e negli anfratti delle città, reso martire e santo, una volta per sempre, dall’opera di Jean Paul Sartre intitolata appunto “Santo Genet commediante e martire” del 1952.
La pièce, che nasce per essere uno spettacolo itinerante all’interno del carcere, ieri è stata trasferita nel teatro della città di Siena, proprio nella giornata mondiale dedicata al teatro. L’ambiente colmo di specchi, di tendaggi e tulle , idoli di marmo e cartapesta, colonne, velluti, richiama ora ad un cimitero, ora ad un postribolo, ora ad un porto di mare, ora ad un salotto: un pianoforte a lume di candela suona dal vivo accompagnando la recitazione.
Bellissimi marinai su piedistalli, come dei santi avvolti in una luce divina, accolgono il gran numero di spettatori; una sposa in una teca sbatte le ciglia blu oltre il vetro, “guappi” poeti accompagnano i presenti per le scale. Attraversano poi la platea, si dispongono sul palcoscenico, giocano a carte, lanciano dadi su un sottofondo di strilli di gabbiani.
Ho assistito ad un’ode alla santità, alla bellezza di ciò che è borderline, che con estrema delicatezza accorda quello che è “pacchiano” in un risultato estremamente fine ed elegante. Lo stesso Punzo, nei panni di un “sacerdote” avvolto in un collare di rose rosse e con un cilindro sul capo, legge in una cantilena di messa le parole dell’autore, che rinasce in tutti i protagonisti del suo diario e delle sue opere letterarie e teatrali. Sfilano così i personaggi tipicamente genettiani, e tutto trova significato e realizzazione nel suo contrario. Ciò che nella nostra realtà e nella cultura corrotta dai valori imposti (forse) risulterebbe ripugnante, sporco e abbietto, approda nella bellezza, e pur sempre con una nota di tristezza, si staglia nella sua eccentricità di circo, impone la sua scomodità nella coscienza di ognuno costretto a porsi domande: avviene la catarsi degli ergastolani, gentili e fragili come fiori.
Il teatro ha sempre permesso il ribaltamento e la duplicità, che trova il senso stesso nella maschera, ma mi sento di dire che questi sfacciati uomini bruti, travestiti da cinesine con ombrellini roteanti e zoccoli di legno, machi dal marcato accento meridionale con uno spolverino in mano o scarpe a punta di serpente ai piedi, abbiano trovato la libertà nello studio della parola, nella scoperta della cultura che è riflessione e ricerca della bellezza , che stupisce e accudisce, rigenera , dà un senso altro e alto alla vita, anche per chi si ritrova condannato all’ergastolo. Il teatro, quindi, per loro che vivono tra quattro mura, non solo significa rieducazione, ma esattamente “evasione”, respiro, paradossale riconquista dell’identità.
Un’ orchestrina di angeli con ali d’oro distribuisce fiori agli spettatori, come in una metafora di offerta e sacrificio di se stessi, pacatamente e gentilmente “gli ultimi” cercano la complicità e la vicinanza della società; attraverso un valzer invitano a danzare il pubblico, sempre più esterrefatto e piacevolmente spiazzato.
Alla fine dello spettacolo il quadro di attori si cristallizza sul palcoscenico, che come un cimitero di vivi esseri multiformi, accoglie la pioggia di fiori dalla platea, tra gli applausi commossi.
Scrive lo stesso Genet: “ Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale- sempre lo coprirò di tanti fiori.”
“Ora tornate a casa. Vedrete che tutto è molto più falso di quello che avete visto qui”.
Dopo questo spettacolo io sono tornata a casa intascando un incoraggiante insegnamento: tutti noi, anche quando tutto sembra dire il contrario, abbiamo un’altra chance.
Tilde Randazzo