Jobs Act, deregulation, exit poll, spread, Escort, turnover, intelligence, austerity, news entry, flop, outfil, badge, budget, all inclusive: scagli la prima pietra chi non possiede questi termini ed espressioni all’interno del suo parlare e sentire quotidiano! E la scagli anche chi non viene messo fortemente in crisi quando alcuni professori di letteratura italiana ci chiedono di non dire più Ok, ma piuttosto va bene.
Gli anglicismi sono parte integrante del nostro esprimerci, comunicare, recepire informazioni, ma non tutti gli anglicismi sono uguali e procurano le stesse conseguenze sulla nostra lingua. Ci sono quelli “insostituibili”, ovvero che non hanno corrispondenza in italiano, come computer, smog, rock, browser, sport; Ci sono quelli “utili” come autobus o tram, o come quelli che rimandano a fenomeni radicati in un luogo e in uno spazio preciso: apartheid, star system, New Deal. E poi ci sono quelli “inutili” che vengono usati per abitudine, per inerzia e che potrebbero essere evitati usando parole ed espressioni italiane.
È proprio contro quest’ultima classe di anglicismi che la petizione #dilloinitaliano si batte.
L’iniziativa è nata da un’idea della pubblicitaria Annamaria Testa che con l’hashtag #dilloinitaliano ha deciso di portare avanti una raccolta firme al fine di invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese ad usare maggiormente parole italiane, a scapito degli ormai diffusissimi foresterismi. Ad una settimana dal lancio sulle pagine di Internazionale e di Nuovoeutile, la campagna sta raccogliendo adesioni in senso trasversale, raggiungendo già 55mila adesioni ed ha trovato supporto anche in giornalisti del calibro di Massimo Gramellini e Michele Serra con due articoli speculari rispettivamente su La Stampa e su Repubblica. Per leggere la petizione e firmarla i riferimenti sono Change. Org e #dilloinitaliano.
Annamaria Testa ha anche partecipato al convegno organizzato a Firenze dall’Accademia della Crusca nei giorni 24-25 febbraio, presentando formalmente la petizione che è stata accolta con successo ed interesse da parte dei cruscanti. Questi ultimi, però, non possono stabilire in maniera normativa e dirigista – alcuni precedenti tentativi in questo senso si sono dimostrati fallimentari- cosa è giusto o cosa è sbagliato dire, né possono imporre agli italiani le parole che possono o non possono usare. Non sono dei giudici o dei legislatori della lingua italiana, piuttosto ne sono studiosi ed appassionati conoscitori e divulgatori.
Gli accademici perciò possono, tutt’al più, sostenere la causa di #dilloinitaliano con opere di sensibilizzazione e si sono proposti di farlo attraverso interventi diversi: 1) compiere un’indagine attraverso la rete per conoscere gli anglicismi più diffusi e per comprendere se gli italiani sentono l’esigenza di sostituirli con parole in lingua italiana; 2) promuovere un incontro con i mezzi di informazione nazionali (tv, radio, giornali) per sostenere le istanze di #dilloinitaliano e trovare insieme delle soluzioni realizzabili ed efficaci; 3) individuare proposte alternative per gli “anglicismi incipienti”, parole inglesi nuove continuamente introdotte da politici, tecnici ed amministratori pubblici.
La campagna non vuole essere una crociata contro l’acquisizione in toto di termini inglesi o in generale di forestierismi, in nome di un conservatorismo linguistico puro, privo di contaminazioni con le lingue straniere. Si tratta soltanto di togliere il superfluo e di valorizzare le nostre parole. Spesso nel linguaggio politico italiano e all’interno del contesto giornalistico-informativo gli anglicismi, ed in particolare gli anglicismi incipienti, creano un effetto di straniamento che stabilisce un gap, una distanza, fra l’argomento e gli ascoltatori, il che può avere conseguenze sulla comprensione dell’argomento in questione (da qui il senso di “straniamento”, soprattutto per le persone adulte, anziane, o che non hanno un livello di istruzione linguistico adeguato a comprendere il forestierismo, e dunque il senso del discorso).
#dilloinitaliano ci mette davanti ad una problematica: il disuso di certi termini italiani rischia di farci perdere la conoscenza e ricchezza del nostro lessico. Soltanto il conoscere la nostra lingua ci permette di scegliere le parole ora nostrane, ora straniere, che in base al contesto ci sembrano più opportune; ma se non conosciamo le nostre parole e non ne abbiamo cura acquisiremo per inerzia, diventandone schiavi, sempre più termini stranieri.
L’italiano è una lingua meravigliosa, ricca di storia e dalle mille sfaccettature. E proprio con questa sensibilità e cura per la ricchezza linguistica che la nostra redattrice Ilaria Borrelli cura per la Redazione di uRadio la rubrica di approfondimento Che hai detto?, appuntamento bisettimanale sui dialetti regionali che vi invito a leggere per saperne di più sulla nostra diversa identità linguistica.
Roberta Grazia Leotta.