Gente di mare o gente di montagna: in Abruzzo non esistono le mezze misure. Cinguant sfumature di griggj? E chi ijè? O si bbiang o si nner (o sei bianco o sei nero). Al massimo si accetta il color arrosticino.
L’abruzzese è un dialetto meridionale (esatto, siete terroni anche voi, almeno per storia e lingua, anche se le cartine geografiche traggono in inganno), molto simile sia al campano che al lucano. Le vocali, dunque, sono spesso chiuse, per cui è facile imbattersi in equivoche conversazioni dove un abruzzese vegano (che probabilmente è come il Molise: non esiste) respinge una delle poche eventuali sue fonti di sostentamento, una pesca, pronunciata con e chiusa nei dialetti meridionali, perché crede che gli stiano proponendo una di quelle brutali, malsane e immorali attività ittiche.
Altre caratteristiche sono l’eliminazione della maggior parte delle vocali di fine parola (biang e ner, come sopra) o la costruzione di “andare” col gerundio: “oh, chi vi facenn?” (che vai facendo?), con tanto di gestualità tipicamente italiana, è la delicata domanda d’esordio di ogni incontro casuale per i vari viali o corsi d’Abruzzo dove si pratica lo struscio. Una variante per chiedere “dove vai?”, ma più delicata, è adoperata nel teramano ed è “duwa vi?”.
Inoltre, come in Campania, gli ausiliari raddoppiano: essere e avere sono considerati troppo mainstream dall’abbruzzes addaver, per cui “teng nu sonn” e “steng stang”, rispettivamente “ho sonno” e “sono stanco” con tenere e stare, sono all’ordine del giorno a scuola e sul luogo di lavoro.
È importante ricordare, però, che in Abruzzo c’è una incisiva bipartizione del dialetto: la zona alta, corrispondente all’aquilano, ha caratteristiche tipiche dei dialetti mediani (marchigiano, umbro e così via) e non elimina le vocali finali, nel tentativo di darsi un contegno; tutti gli altri abruzzesi, invece, vi hanno ormai rinunciato. Hanno accettato serenamente la propria condizione di meridionali, montanari o di porto, e si sono lasciati trascinare dall’onda dell’incomprensibilità. Calem aecc o calem aell? Non è arabo, anche se poco ci manca. È una di quelle frasi che si possono sentir pronunciare da un tizio qualsiasi sull’autobus, indeciso se scendere qui, aecc, o là, aell, cioè alla prossima.
All’interno dell’abruzzese vero e proprio vi è una seconda bipartizione tra orientale, o adriatico, e occidentale, o appenninico. Ma in qualsiasi zona vi troviate non vi faranno mai sentire la mancanza dei bocconotti e delle mitiche “rustell”, cioè gli arrosticini, protagonisti di sposalizi, feste di compleanno, pasquette e ferragosti, di giornate in spiaggia come sostituti del cocomero e via dicendo; è anche il piatto base delle migliori diete (chi ci vu fa’ ng’ la Ducàn? Magn du rustell chi ijè bbone… Cosa ci vuoi fare con la Dukan? Mangia due arrosticini, che son buoni!).
A zonzo il sabato sera non ci si può non ritrovare di fronte a persone che si sono “rivestite” per uscire. “Ecc lu cafone arricchit” direbbe, passando, un qualsiasi abruzzese di mezza età che in realtà sa di esser parte anch’egli di quell’occulta cerchia di ex villici, ma ovviamente tenta di negarlo e nasconderlo, mostrandosi tutto “lind e pind” (in ghingheri) al mondo.
In ogni caso, nelle zone di Pescara e Teramo gira un brutto virus: si chiama “auà”. È un’esclamazione che sta bene con tutto. Può voler dire tutto e niente. I ragazzi che accompagnano le proprie fidanzate a fare shopping e si imbattono nella classica quanto meschina domanda “Questo vestito mi ingrassa?”, possono rispondere tranquillamente con tale interiezione e sfuggire alla catastrofe. Tanto non vuol dire nulla. È solo un modo per sentirsi diversi dagli abbruzzesi del Sud.
Se invece si passeggia per qualche paesino, che può essere in cima alla Maiella o di fronte ai trabocchi, il pericolo è sempre dietro l’angolo. Da dietro una tenda del primo piano oppure di fronte al portone del palazzo appollaiata su una sedia in vimini o, arditamente, appoggiata al cancello di casa, la vecchia del paese è costantemente pronta all’assalto e, con sguardo circospetto, vi si avvicinerà a chiedere “Di chi si lu fije?” (di chi sei figlio?). Ragazzi, attenzione. È una domanda a trabocchetto. Se risponderete bene, cioè con un nome che conosce, vi si attaccherà come una sanguisuga per cercare di succhiare ogni millilitro di pazienza che avete in corpo fino a quando non le avrete riproposto con accuratezza il vostro albero genealogico; si metterà a piangere alla scoperta di un vostro parente deceduto, con intermezzi di “scil malditt” (letteralmente, “sia maledetto”… ma dopo anni e anni di studi dell’Accademia della Crusca non si è ancora riusciti a capire a chi sia rivolto il malaugurio); vi racconterà aneddoti incredibili di pellegrinaggi ai confini del mondo con i vostri nonni; se vi ha conosciuti da piccoli, dopo il fantomatico “quanta ti si fatt gross!”, vi inviterà a contrarre matrimonio con una sua bellissima nipote, che è ancora citila, quatrale o bardascia (tutte varianti di bambina o ragazza). Altrimenti, nel caso in cui voi siate “figli di nessuno”, vi lascerà proseguire nel vostro viaggio senza indugio, ma con grande diffidenza, e vi osserverà con sguardo sospettoso fino a quando non avrete svoltato l’angolo.
Frechete cumpa’ (traducibile col solito “ammazza”, che ormai adopero come modello per ogni articolo), mi sono dilungata fin troppo. Scine ca scine, ma ca scine n’dutt…! Cioè, va bene tutto, ma non esageriamo.
(Ringrazio Daniele Forcella di uRadio)
Ilaria Borrelli