Big fish – Le storie di una vita incredibile: come l’uomo sopravvive al mondo.

Big fish – Le storie di una vita incredibile è un film di 125 minuti del 2003 diretto da Tim Burton, regista tra i tanti di Edward mani di forbice (1990) e La fabbrica di cioccolato (2005). Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Wallace, racconta le esperienze fantastiche della vita di Edward Bloom (Ewan Mcgregor/Albert Finney). Nonostante il tema fantastico, la parte concettuale del film va a toccare molti temi profondi, senza renderli pesanti, permeandoli con un velo di leggerezza.

Locandina del film
Locandina del film

Struttura del film

Da un punto di vista temporale ci troviamo su due livelli: il primo riguarda il presente. Qui il protagonista è il figlio Will Bloom (Billy Crudup) che cerca di recuperare i rapporti con il morente padre Edward. Il secondo riguarda il passato, dove questa volta il protagonista è Edward. La sua esistenza viene raccontata a partire dall’infanzia con numerosi flashback come lui stesso era solito raccontarla, cioè dipingendosi, tramite delle storie fantasiose e piene di colpi di scena inaspettati, come un giovane molto ambizioso e pieno di vita.

L’identità di Edward

Chi è veramente Edward Bloom? Qual è la verità tra la figura reale e quella finta delineata dalle sue storie? È Will che si pone questa domanda, cercando di andare a fondo nella misteriosa esistenza del padre. Il rapporto padre/figlio è infatti vissuto in maniera conflittuale, poiché il figlio sente il genitore come un estraneo. Edward per Will indossa una maschera, una maschera intangibile fatta di bugie, cioè le leggende inventate da Edward, che insieme alla sua costante assenza durante l’infanzia, portano Will a disconoscerlo. Egli sente di non avere alcuna importanza per lui come figlio, di essere solo una macchia di inchiostro nel quaderno della sua vita.  Da un lato lo spettatore non può che empatizzare con il figlio, ma dall’altro viene catturato dalle narrazioni del padre accentratore, che lo portano in un mondo sognante, grazie anche alla scelta di rappresentare il passato con colori più caldi e poco nitidi, contrapposti al freddo presente.

Un mondo ostile

Freddo è anche il mondo esterno al di fuori dal proprio nido. In una visione più politica, è un mondo quello di Big Fish di bellum omnium contra omnes, dove nessuno si fida di nessuno, almeno inizialmente. Edward, quando decide di lasciare il proprio paese natale, dove era considerato un mito, si ritrova a partire da zero. Dovrà contare solamente su di sé e sulle sue qualità, come lo spiccato estro e l’impegno, per diventare un uomo di successo anche in un ambiente nuovo e ostile.

E l’amore?

Edward e Sandra all’inizio della loro relazione.

Si tratta di un mondo in cui non c’è spazio per sentimenti umani, meno fra tutti l’amore. Dopo essersi innamorato follemente di una donna, la sua futura moglie Sandra Bloom (Alison Lohman/Jessica Lange), dovrà lavorare duramente senza compenso presso un circo per avere un’informazione al mese che riguardi la sua amata. Anche una volta conquistata Sandra il peso degli impegni, del lavoro, della guerra di Corea, per la quale verrà arruolato, e la sua costante irrequietezza impediranno al nostro protagonista di godersi a pieno la propria esperienza amorosa.

Frankenstein

Sempre nell’ottica della difficoltà dell’uomo a relazionarsi con i suoi simili e con l’ambiente, è ricorrente nel film la figura del freak: lo incontriamo prima con il personaggio del gigante Karl (Matthew McGrory), poi nel circo con il direttore Amos Calloway (Danny DeVito), un lupo mannaro. Si tratta di persone che, in superficie o nel profondo, si discostano dal labile concetto di normalità, e per questo sono temuti. L’iniziale atteggiamento aggressivo di questi personaggi nasce in risposta proprio dall’ostilità della massa, che li fa sentire additati e condannati, come se la loro solitudine fosse giusta. A differenza della fine drammatica del personaggio di Mary Shelley, i mostri di Burton vengono ottimisticamente accolti nella società e riescono ad esprimersi senza essere violenti.

La via di fuga

Molte volte all’interno del film si tocca l’argomento dell’inafferrabile, dello sfuggevole: non solo l’uomo non comprende il suo prossimo come il figlio non riesce ad inquadrare il padre, paragonato ad un grosso pesce incatturabile, ma in senso più generale, all’uomo sfugge il senso della vita. L’uomo è limitato per natura, non può tendere verso l’infinito. Anche se un pesce rosso può aumentare di molto le sue dimensioni vivendo in un lago piuttosto che in una boccia rimane irrimediabilmente vincolato, legato al suo ambiente esistenziale. Così l’uomo, rappresentato in Edward, si trova sbalordito davanti all’immensità dell’universo e della vita, non riuscendo a trovare uno scopo in essa: da qui la scappatoia dal reale, tramite l’immaginazione.

In conclusione

Il reale è spesso deludente, la vita non riserva nulla di speciale, anche se si è fatto il massimo e si ha raggiunto il successo secondo i canoni di vita borghesi. La conclusione a cui giunge è che sia meglio inventare una realtà fittizia straordinaria, che però deve essere di insegnamento. È questo il senso che Edward dà alla vita: tramite le sue storie cerca di veicolare a chi lo ascolta degli insegnamenti utili per trarre il massimo dalla vita. Un esempio è l’osare, l’essere coraggiosi. Il piccolo Edward grazie ad una strega scopre come e quando morirà: questo gli dà una carica in più perché egli vive come se fosse immortale. Penso sia questo il grande insegnamento che il film vuole darci: di nietzschana memoria, l’uomo, dopo aver conosciuto la verità e il peso dell’esistenza, per non farsi schiacciare deve tornare bambino e inventare nuovi orizzonti di senso, facendosi creatore, divinità.


Dario Panarelli

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