Steven Wilson – “Hand. Cannot. Erase.” (recensione)

Molto probabilmente, ben pochi di voi conosceranno la storia di Joyce Carol Vincent, una ragazza morta nel dicembre del 2003 nel suo appartamento di Londra, ma ritrovata ben due anni dopo. Una vicenda incredibile, che ha scosso parecchie coscienze e fatto interrogare molti su come fosse possibile venire completamente dimenticati dal resto del mondo. Tra questi, c’è anche Steven Wilson, fondatore dei Porcupine Tree. Il musicista inglese ha trovato in questa storia ai limiti del surreale l’ispirazione per il suo nuovo album, intitolato Hand. Cannot. Erase., successore del riuscitissimo The Raven That Refused To Sing (and Other Stories). In che modo quanto accaduto a Joyce Vincent avrà influenzato il songwriting di Wilson? E, parlando più in generale, come si rapporterà quest’ultimo lavoro ai suoi dischi precedenti?

Come dichiarato da Steven in alcune interviste, il filo conduttore di Hand. Cannot. Erase. è proprio quello dell’isolamento dell’individuo nella società moderna, ed in particolare nelle grandi metropoli, che in qualche modo spersonalizzano e rendono invisibili. Le atmosfere del disco rispecchiano proprio questa realtà, risultando infatti essere molto oscure e malinconiche. Ciò è evidente in brani come l’opener First Regret, o nella acustica Transience. Il panorama cittadino è invece richiamato da un uso dell’elettronica più accentuato rispetto ai precedenti lavori di Wilson. Si veda, ad esempio, la prima parte della monumentale Ancestral, emblematica in questo senso. Ma, in generale, Hand. Cannot. Erase. abbraccia moltissime altre influenze. Passiamo dal pop-rock della title-track­ alle solite fughe prog e jazzy (queste in misura minore rispetto a The Raven That Refused To Sing), a elementi avantgarde, senza dimenticare momenti come l’assolo di moog in Regret#9, o evidenti richiami metal (soprattutto nel finale della già citata Ancestral). Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia, molta di più che nei precedenti album del mastermind dei Porcupine Tree. Sull’altro piatto della bilancia abbiamo una parziale semplificazione di certe strutture sonore: rispetto a The Raven That Refused To Sing, decisamente più complesso anche per esigenze narrative (ogni brano raccontava una storia autoconclusiva), Hand. Cannot. Erase. risulta più accessibile ed immediato, soprattutto nei brani dal minutaggio più ridotto. Ma, ed è bene sottolinearlo, siamo comunque di fronte al più classico dei lavori targati Steven Wilson. I maniaci della tecnica troveranno come al solito pane per i loro denti, anche perché la squadra di The Raven That Refused To Sing è stata confermata in blocco: ancora spazio, dunque, per il gustosissimo e folle drumming di Marco Minnemann, così come per le evoluzioni di Guthrie Govan alla chitarra. Impossibile non citare il suo bellissimo assolo in Regret#9: magia musicale allo stato puro.

Hand. Cannot. Erase. è un disco meraviglioso. Non ci perdiamo in giri di parole, l’ultimo lavoro di Steven Wilson ci è piaciuto da impazzire e ci ha convinto appieno. Rispetto al predecessore, si perde un certo gusto per le grandi suite prog, questo è innegabile. Ma ciò che troviamo in questo album è una narrazione in musica che cattura nelle sue malinconiche atmosfere e non lascia più liberi. Spazio all’elettronica, al pop come al metal, ai brani brevi e diretti: ogni nuovo elemento è inserito perché funzionale a ciò che Wilson vuole raccontarci. Provate ad ascoltare questo disco di sera, con le luci della strada che penetrano furtivamente dalle finestre: vi ritroverete nella Londra di Joyce Vincent, specchio di un mondo che in apparenza ci avvicina, ma che in realtà ci allontana inesorabilmente gli uni dagli altri.

Giacomo Piciollo

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