Com’è possibile che ad oggi nella “Bella Italia” (escludendo la recente pandemia di Covid19 certo) il marchio “Made in Italy” come la stessa idea che lo costituisce, stiano scomparendo ad una velocità inimmaginabile e senza che la gente comune se ne accorga concretamente?
Com’è possibile che il paese che per eccellenza fonda le sue radici nella diversità, nella multiculturalità e soprattutto nell’immigrazione, ad oggi sia (non a livello di numeri) uno dei meno accoglienti e dei più sofferenti?
Infine, com’è possibile che il paese di riferimento per la storia, l’arte e la letteratura mondiale di tutti i tempi, sia ad oggi l’unico ad avere uno dei numeri più alti di studenti che vanno in altri paesi a studiare, o addirittura a lavorare senza licenze serie? O che il servizio pubblico sia spesso così inefficiente e lento?
Queste sono solo una minima parte di tutte le domande che potrebbero nascere spontanee a chiunque inizierebbe a risiedere in questa terra dopo poco più di un anno ed alle quali si darà risposta anche nei prossimi articoli. Se le domande in sé per sé sono incerte e fortemente diversificate, le risposte, al contrario, ci sono più che chiare, nonostante poi nessuno riesce (o vuole) cercare delle soluzioni reali.
CAPITOLO I
Il “Made in Italy”
Il marchio “Made in Italy”, che attraverso i vini di altissima qualità, i prodotti di oreficeria e d’abbigliamento, quelli dell’enogastronomia e via dicendo, ci ha fatto scoprire al mondo e imporre sul mercato, attualmente è solo al settimo posto nella scala dei marchi (nonostante sia insieme al logo Coca-Cola, il più conosciuto nel pianeta).
Questo avviene perché dal 2005 sono state abbassate le soglie dei dazi export verso l’Europa, causando una concorrenza di mercato notevole con i prodotti provenienti da paesi il cui costo di vendita era decisamente minore rispetto a quelli locali, ma con una qualità nettamente inferiore, fatto che però, a quanto pare, alla maggior parte della popolazione non ha interessato.
Concorrenza sleale
Se prima ci si poteva vantare di viaggiare su un treno delle nostre ferrovie, o vestire abiti frutti della nostra attività manifatturiera, oggi non più.
A causa proprio di questa legge, e di una generalizzazione di mercato silenziosa che ha coinvolto anche e soprattutto l’Italia negli ultimi vent’anni, le nostre grandi e centenarie imprese (da Pirelli, Italo, Eni, e così via dicendo) non hanno fatto altro che spostarsi in altri paesi, o addirittura venir comprate da altre multinazionali straniere.
Nel primo caso, ciò è avvenuto perché il nostro paese ha una burocrazia imponente che agisce attivamente sul profondo tessuto delle varie attività limitando determinati comportamenti, mentre nel terzo mondo (e paesi BRICS, Brasile, Russia, India e Cina, Sudafrica, in fortissima via di sviluppo) non si abbassano solo i costi di produzione, ma anche e soprattutto le leggi che tutelano i diritti del lavoratore e del singolo produttore.
Nel secondo caso, ossia qualora fossero o venissero comprate, è perché il produttore “medio” preferisce appartenere ad una rete di aziende più ricca ed ampia in una terra con “più possibilità” (ma solo per alcuni), che preservare la tradizione (e quindi anche il prezzo più elevato) e far parte, al contrario, di una rete di aziende “minori” ma fortemente focalizzate su mirati campi della nostra personale produzione.
Il TTIP
Nel sito di “Made in Italy” si legge chiaramente quanto sia evidente pure a loro, che servono misure per allentare questa morsa che sta vivendo la nostra terra, questo infatti, è quanto si legge:
“Il vero problema sorge dal fatto che il fattore prezzo spessissimo comprime il valore del prodotto italiano con prezzi che sono al limite del possibile. Quindi è assolutamente indispensabile oggi fare in modo che la distribuzione internazionale possa essere aiutata a selezionare il prodotto italiano, individuando attraverso la garanzia della certificazione i prodotti di qualità fatti veramente in Italia ovvero materiali di prima scelta, trasformazione in Italia, stile italiano, lavorazione tradizionale tipica italiana, rispetto ai prodotti fatti totalmente o parzialmente all’estero con l’etichetta Made in Italy”.
Effettivamente non è delle dichiarazioni più speranzose ma certo dimostra quanta consapevolezza ci sia dietro… eppure, ancora una volta, questo paese tradisce la sua parola.
Nel 2013 (con il governo Letta-Renzi) l’Italia è tra i banchi di una squadra di paesi che sta per firmare il TTIP, ossia il Trattato Transaltantico sul commercio e gli investimenti, avente un unico grande fine: unire i due colossi del mercato occidentale, quello europeo e quello americano.
Uno scambio iniquo
Come? Rastrellando letteralmente tutti quei dazi doganali che vigono dal secondo dopoguerra, ma soprattutto, cancellando letteralmente tutti quei provvedimenti giudiziari fatti nei decenni sulla nostra tutela del prodotto. Cosa vuol dire?
Che dal 2013 (qualora il provvedimento fosse stato passato) americani ed europei si sarebbero ritrovati sulle tavole i reciproci prodotti, ma mentre per i primi non ci sarebbe stata una perdita economica (perché sono un mercato imponente) e men che meno sanitaria (il prodotto certificato europeo è tutto fuorché fuori norma), per i secondi ci sarebbe stata la sorpresa di ritrovarsi nelle tavole i polli, piuttosto che le verdure, piuttosto che qualsiasi altro prodotto statunitense, imbottito di medicinali e sostanze chimiche (come loro tipico) a un costo bassissimo e “conveniente” per tutti.
Fortunatamente nulla è mai andato in porto e la concorrenza straniera sia sul piano finanziario che su quello “del gusto” non ha mai avuto modo di realizzarsi.
Le conseguenze effettive
La prima e diretta conseguenza della sparizione del “Made in Italy”, è certamente la perdita diretta di posti di lavoro e il conseguente impoverimento delle relative famiglie che hanno difficoltà e non ricevono più sussidi dal governo. La seconda grande conseguenza -e ce ne ha parlato anni fa Giorgio Armani con un messaggio all’ex capo di governo Renzi – è la scomparsa di un brand, che racchiude in sé cultura, creatività, professionalità e una storia inimitabile ed invidiabile.
Ma alla fine il vero problema non è tanto dei produttori, quanto nelle reti istituzionali che non riescono (o non vogliono) risolvere la problematica in maniera efficiente e diretta.
Lo spreco
Oltre ad essere grandi produttori di servizi, siamo anche grandi produttori di opere architettoniche incompiute (da stadi, palazzine per lo sport, caserme, ponti, viadotti, e via discorrendo) per un totale di circa 609 (perché anche la lista che le elenca è incompiuta), che ci sono costate quasi oltre un punto di PIL. Allora il vero problema dell’Italia non è il debito pubblico (che dopo la pandemia è salito alle stelle), o tantomeno la fuga di cervelli e manodopera alla quale assistiamo, ma lo spreco irrispettoso e vergognoso, indegno per un paese che nel concreto si vanta ciò ci di cui può vantarsi.
Ridurre lo spreco
E lo spreco non si riduce tagliando fondi all’investimento pubblico o tantomeno alzando le tasse, ma al contrario, incentivando i pagamenti elettronici con bancomat, che ridurrebbero drasticamente la prepotentissima evasione fiscale (ormai anche quella insita nelle nostre corde e che ci toglie ben più di un punto di PIL), o ridimensionando la spesa pubblica, a partire dalle classi dirigenti, o ancora, con misure istituzionali efficaci (non falsi incentivi al lavoro come il Reddito di Cittadinanza), che realmente emancipino quello che è un paese che si sta sempre più aggrovigliando sulle sue difficoltà, senza trovare la forza (o la voglia) di reagire.
Noel De La Vega