"Che hai detto?" – Ca nisciuno è fesso

Ammettetelo: non appena sentite “ué” per strada pensate ad un unico possibile dialetto. E ammettete anche questo: non pensate “è campano” ma subito “questo è napoletano”.
Se c’è una cosa che più dà fastidio ai campani è proprio il fatto di essere sempre, costantemente, inevitabilmente assimilati ai napoletani.

Sì, Napoli è ‘o capoluogo (col dittongo –uo- da pronunciare in modo ben marcato), pizz e mandolino (dai, non venitemi a dire che non lo state pronunciando alla napoletana), curniciell e Pulcinella… e tutto il resto? Dai, ja’, non fermiamoci ai soliti stereotipi. È fastidioso assai.

In Campania si parla un dialetto meridionale che, come tale, ha caratteristiche ben precise e assimilabili a quelle di altri dialetti come l’abruzzese, il lucano, parte del pugliese e del calabrese. Tra le peculiarità più evidenti vi sono le vocali pronunciate chiuse, i dittonghi ben calcati, il raddoppiamento di alcune consonanti (‘o babbà), il fenomeno del betacismo (cioè lo scambiare la v con la b e viceversa: “vaso” per bacio) e l’eliminazione dell’ultima vocale di una parola. I campani, inoltre, rifiutano con fermezza la prassi grammaticale secondo cui essere e avere sarebbero gli unici due verbi ausiliari e, con una ribellione da far invidia ai moti napoletani del 1820, hanno instituito e diramato a buona parte del Sud l’uso supplementare di “tenere” e “stare”. Statt accuort, teng famm, tiene ‘a capa tosta…

Non è facile tracciare confini linguistici in Campania. A volte tra paesi limitrofi ci sono differenze abnormi. Un esempio può essere la piccola Caggiano, in cui si parla un dialetto che sembra un misto tra napoletano, siciliano e salentino. In ogni caso, quella che possiamo considerare la lingua napoletana si ridivide nelle varietà campane come il salernitano, l’irpino, il beneventano e il cilentano.

Si nu ciuot, o nu stordo, se pensi di poter imparare velocemente la grammatica napoletana o delle zone limitrofe. Neanche Babbel ti può aiutare. Tra pronomi dimostrativi di vario tipo (chist, quist, quidd, chill, chir…), pronomi personali di terza persona dalle variegate forme (id e edda o iedda, iss ed essa, iro ed era) e fiumane di articoli determinativi (‘o, ‘u, lu, ‘a, ‘e, ‘r), la fase di apprendimento deve essere davvero lunga. Un B2 non basta per interiorizzare la grammatica campana, a meno che tu non voglia comprare la certificazione facendo le cose aumm aumm.

Il campano fuori sede, per antonomasia denutrito, riceverà da parte della mamma una telefonata di questo tipo: “Uéé, ‘o criatur mij… t’aggia manna’ quaccosa? Pummarol de mammà, struffoli, ciambotta, zeppole, babbà, sfugliatell e pastiera… vabbuò?”. Da tale domanda scaturiranno una finissima esclamazione di sorpresa (‘ngul!) e la speranza di aver “pigliat ‘o cazzo pe’ ‘a banca ‘e l’acqua” (cioè aver capito fischi per fiaschi).

Nun tene’ scuorno (vergogna), però, se ti accusano di essere nu musce mattej (moscio, poco attivo); puoi sempre rispondere “dicette ‘o pappece vicino ‘a noce: damm ‘o tiemp’ ca te spertoso” (disse il verme alla noce: dammi il tempo che ti perforo; nel senso che con pazienza e assiduità si vedranno un giorno i frutti del proprio operato).

Napoli è famosa per la produzione industriale di interiezioni esclusivamente vocaliche dal forte impatto uditivo. Ué e uà sono le più famose. Uà può essere un’esclamazione di stupore di fronte a una bella uagliona (ma anche guagliottola o figliola) ma non solo. Allungando un po’ la “a” (quanto basta), accompagnata da apposito linguaggio gestuale, può indicare insofferenza o impazienza, magari di fronte a un ‘nzallannut (o nu sciem) o a ‘na chiavica (‘na pippa, per esser chiari).

La celeberrima cazzimma, parola famosa ma dal significato abbastanza oscuro per il forestiero, può avere varie sfumature: può intendere la cattiveria in sé e per sé (quando magari una persona agisce per tornaconto personale) o la cocciutaggine, ovvero quando “all’andrasatta” o “coppa mane” (all’improvviso) il tuo interlocutore decide di non rispondere più alle tue domande, da grande capazzappone (che è cap tuost).

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Tra città campane si è soliti assegnarsi appellativi canzonatori e incisivi. I napoletani usano chiamare i casertani “bufalari” (ed è ovvio il motivo). Quasi tutti sono concordi nel qualificare i salernitani come “pisciaiuoli” cioè pescivendoli, ma i salernitani si difendono dicendo che “si Saliern avess ‘o puort, Napl foss muort”. I beneventani, invece, sono considerati “pecorari”. A livelli più ristretti, per esempio, i pollesi sono gli “annijati”, perché c’è sempre nebbia da loro, o i “carmineddi” (poiché Carmine è il nome più diffuso). Ma questi non sono da meno perché chiamano gli abitanti di Sant’Arsenio “scenuddi” (dalla congregazione di San Scenute di cui facevano parte coloro che occuparono il territorio e fondarono il paese).
Insomma, non hanno niend ‘a fa’.

Per terminare, farò una rivelazione strabiliante e al tempo stesso confortante: non ho trovato fan dei neomelodici o di Gigi D’Alessio. Nun ‘ng n’ fott proprj a nisciun.

 

(Ringrazio Cinzia, Giovanna, Mimmo, Mirko e Vittoria per la consulenza)

Ilaria Borrelli

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