#uReview: AC/DC – "Rock or Bust" (recensione)

Il ritorno sul mercato discografico degli AC/DC è stato preceduto da una serie di voci e notizie non proprio rassicuranti: dalla demenza che ha colpito Malcolm Young, da sempre principale compositore del gruppo, ai guai del batterista Phil Rudd con la giustizia. Poco e nulla a che fare con la musica strictu sensu, ma senza dubbio si tratta di avvenimenti che hanno minato alle fondamenta la stabilità della band australiana. Che però non si è persa d’animo, ha reclutato alla chitarra Stevie Young, nipote di Malcolm e di Angus, e ha realizzato questo Rock or Bust, sedicesimo capitolo di una carriera ormai quarantennale. Si tratterà di un buon disco, o invece ciò che è accaduto all’interno della formazione avrà lasciato strascichi anche nella sua musica?

Più o meno tutti quelli che hanno ascoltato qualcuno dei precedenti dischi degli australiani sapranno già cosa aspettarsi da Rock or Bust. La formula è la stessa di sempre, quella che ha portato gli AC/DC tra i più grandi nomi del rock di tutti i tempi. I brani sono molto  semplici e lineari, l’andamento è estremamente coinvolgente e divertente, le chitarre sono sempre in primissimo piano e le linee vocali (prima di Bon Scott, poi di Brian Johnson) sono ormai iconiche. In questo ultimo parto discografico si ritrovano tutti questi elementi, racchiusi in 35 minuti di durata, che lo rendono il più breve della storia degli AC/DC. A dire la verità, in alcuni brani della scaletta si denota un’attitudine più blueseggiante che puramente hard rock, ma la ricetta non si discosta poi molto da quella succitata. Il problema principale di questo Rock or Bust è proprio questo: quando si ha un’ispirazione travolgente, e si danno alle stampe dischi storici come Let There Be Rock o Back In Black, la sostanziale uniformità delle soluzioni stilistiche è un elemento tutto sommato marginale. Ma quando quell’ispirazione viene a mancare, rimane solamente tanto, forse troppo, mestiere. E Rock or Bust è proprio questo: un disco sì divertente, ma con al suo interno elementi sentiti e risentiti che, uniti alla sostanziale mancanza di grandi canzoni, penalizzano il giudizio finale.

Questa non vuole però essere una bocciatura, anche perché non sarebbe possibile bocciare un disco del genere: le canzoni, quale più, quale meno, funzionano, l’ascolto è piacevole e a tratti anche divertente, e non mancano i brani che varrà la pena di sentire dal vivo. In particolare, le prime due tracce, Rock or Bust e Play Ball, convincono e fanno muovere la testa e il piede: missione compiuta, dunque. Altri brani degni di nota sono Dogs of War, leggermente meno lineare e scontato degli altri, e Baptism by Fire, innegabilmente un pezzo rock ben confezionato e coinvolgente. La classe e la maestria compositiva degli AC/DC sono innegabili, e riescono, pur con un materiale di partenza non certo esaltante, a confezionare un prodotto che, in fin dei conti, è un altro bel pezzo di rock’n’roll suonato come si deve.

Come concludere questa recensione? Consigliando questo Rock or Bust? Senza dubbio sì, come già ripetuto si tratta di un album divertente, che non vi cambierà certo la vita né i gusti in ambito musicale, ma che ha le sue cartucce da sparare. Si nota una certa stanchezza di fondo, dovuta a soluzioni usate e anche abusate, e a una generale mancanza di quel guizzo di genialità che in passato ci ha regalato brani memorabili. Qui non ci sono canzoni che resteranno negli annali, né cambiamenti stravolgenti del classico suono made in AC/DC. Ma di certo non si può chiedere a loro, nel 2014, di cambiare il rock. Quello che abbiamo tra le mani è dunque quello che ci si aspettava, niente di meno e niente di più. Se non sopportavate la band australiana, non la sopporterete nemmeno in Rock or Bust. Ma, se siete fan di certe sonorità, il consiglio è quello di dare una chance a questo disco: la classe c’è, si sente, e passare un’altra buona mezz’ora in compagnia degli AC/DC non è certamente un peccato.

Giacomo Piciollo

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