Che strano chiamarsi Federico

L’eredità di Federico Fellini a 25 anni dalla sua morte

Si è celebrato il 31 ottobre 2018 il venticinquesimo anniversario della scomparsa di uno dei più grandi registi della storia del cinema, non solo nostrano, ma internazionale, il cineasta che ha forse avuto maggiore impatto e influenza sulla cultura e sull’arte cinematografica mondiale. È allora oggi legittimo, nonché giusto porsi queste domande: cosa ci resta di Federico Fellini? Quanto fu apprezzato – effettivamente – il suo lavoro? Siamo adeguatamente consapevoli del suo lascito?

Pare difficile, all’interno del quadro della narrazione cinematografica odierna, credere che il suo genio e il suo estro creativo non vennero riconosciuti, almeno subitaneamente, e che per un certo periodo a dominare vi fu un atteggiamento di ritrosia, più o meno esplicito, sia nella valutazione che nel rilevamento della portata assolutamente originale e rivoluzionaria del suo modo di intendere e fare cinema, in ogni suo aspetto: dal rapporto con gli attori alla stesura delle sceneggiature sino ad arrivare alle tecniche di ripresa.

Pare difficile credere che Fellini fosse considerato spesso un enigma, un’incognita, tanto da spiazzare in diverse occasioni i suoi produttori, rendendoli dubbiosi e titubanti delle sue creazioni, persino al culmine del suo successo, al punto tale da vedersi negare i finanziamenti per girare quello che sarebbe stato il suo ultimo lungometraggio. Morì a 73 anni a Roma, nel 1993, senza essere riuscito nel periodo precedente a girare per carenza di sovvenzioni e fondi, nonostante avesse già conquistato cinque Oscar, la Palma d’oro e i Leoni a Venezia. 

Chi era Federico Fellini.

Nonostante abbia dettagliatamente analizzato, scandagliato in ogni sua piega e ostentato con ironia mai banale ogni tratto tipico di Roma e della “romanità”, sino a rendere il suo cinema uno specchio intelligente e mai opaco della Capitale, fu Rimini la sua città, luogo natale e palestra delle sue prime esperienze cinematografiche. Appena diciannovenne si recò a Roma e ne fece presto la sua casa, entrando in una simbiosi profonda con quello spazio urbano che diventerà da subito la sua seconda pelle, tanto che, con parole che mai furono più opportune, Goffredo Parise lo definiva “il solo non romano che al tempo stesso sia romano da sempre”. Fu a Cinecittà che girò i suoi capolavori e fu lui a dare al cinema italiano una nuova connotazione, regale e stracciona al tempo stesso, rendendolo diverso da ciò che era stato negli anni precedenti: più complesso, oscuro, onirico e suadente, eternamente femminile.

Fu lui, attraverso le sue opere iconiche, il testimone e il rappresentante più accreditato di quell’Italia che si affacciava, intrisa dei suoi vizi e delle sue virtù ataviche, sul secondo Novecento. Per questo motivo e per molti altri Fellini dev’essere considerato senza alcun dubbio il terminus ante quem e postquem attraverso cui leggere e rileggere la storia, le caratteristiche e gli sviluppi del cinema italiano. 

Gli inizi.

Il primo vero approccio con la regia è datato 1950 con Luci del varietà, diretto insieme ad Alberto Lattuada. I due decisero di autofinanziarsi, attraverso la creazione di una cooperativa, ai fini della realizzazione dell’opera. Non riscuotendo successo al botteghino, nonostante l’accoglienza positiva della critica, la collaborazione tra i due si interruppe bruscamente. Successivamente, Fellini si concentrò su un nuovo progetto filmico, Lo sceicco bianco, avvalendosi della collaborazione di Antonioni per la scrittura del soggetto. È certamente questo il film da considerare come il biglietto da visita di Fellini; un’opera che ha in nuce tutte le caratteristiche e le peculiarità tematiche (e non solo) alle quali il regista si mostrerà sempre fedele nelle sue successive creazioni, tanto che, a partire da questo momento, il suo stile fu da subito definito fantarealismo. Anche questa pellicola però non riscosse il successo di pubblico atteso, lasciando deluso il produttore.

Lo scenario mutò radicalmente dopo l’uscita de I Vitelloni, che procurò a Fellini i primi abbagli di fama e consenso toutcourt, anche a livello europeo, superando finalmente i precedenti problemi d’incassi. Presentò l’opera al Festival del Cinema di Venezia, dove vinse il Leone d’oro.

Seguirono poi La strada, Il bidone e Le notti di Cabiria. L’entusiasmo del pubblico e l’accoglienza della critica si rivelarono altalenanti, ma i capolavori assoluti erano ancora in cantiere.

La dolce vita.

“Tu sei tutto Sylvia. Ma lo sai che sei tutto? You are everything … everything! Tu sei la prima donna del primo giorno della Creazione. Sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa… Ah, ecco che cosa sei: la casa!”.

E’ questa una delle citazioni più celebri di una delle scene più amate ditutto il cinema italiano: Marcello Mastroianni, Anita Ekberg e il loro bagno notturno nella fontana di Trevi illuminata e silenziosa. La dolce vita, uscito nelle sale nel 1960, è indiscutibilmente il film più celebre di Fellini, nonché una delle più famose e apprezzate pellicole a livello globale. Un’opera che segnò in profondità la sua epoca, tanto da poter essere considerata a tutti gli effetti una sorta di manifesto di quell’Italia un po’ cialtrona e gaudente, nobile e decadente, decisa a godersi fino agli accessi il benessere economico e i primi barlumi di modernità che gli anni Sessanta portarono con sé, dopo anni di riassestamento e ricostruzione. Ma il capolavoro felliniano rappresenta anche la fine del Neorealismo e l’inizio di una nuova fase del cinema italiano, che a poco a poco sostituisce la narrazione dei più poveri e disagiati, delle anime perse del Dopoguerra, con una visione più vasta, allargata e trasversale del periodo subito successivo, facendosi fedele specchio dell’immaginario collettivo di una nuova generazione di ambiziosi perdigiorno, dive estemporanee ed edonisti incalliti. La Roma catturata dallo sguardo mai domo di Fellini è una città in preda a istinti di godimento sfrenati, che non vuole fermarsi mai, che non vuole aprire gli occhi sulla vacuità e la superficialità d’intenti e compromessi su cui sta crescendo giorno dopo giorno.

Maddalena.

Solo un regista come Fellini, fine intenditore e conoscitore delle piaghe più subdole e ferine di un certo tipo d’umanità, sarebbe stato capace di rappresentare così efficacemente la società romana a cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio del decennio successivo, totalmente assuefatta da manie di grandezza e in preda ad una nevrosi generale, senza lasciare al protagonista alcuna possibilità di redimersi. Le scene si intervallano, serpeggiando tra i vacui fasti della più alta borghesia e le credenze primitive dei ceti sociali più bassi, ed è sempre tramite lo sguardo ondivago e interrogativo di Marcello, cronista della stampa scandalistica, che lo spettatore accede a questo percorso volto a smascherare, tappa dopo tappa e con la tipica sottigliezza felliniana, la patina scintillante sotto cui perseverano miseria e pochezza, sotto cui brucia oramai ogni morale o principio etico. L’onirico, il sogno, il terrore e lo sgomento si accavallano al mondo reale, scardinandolo e riuscendo a mostrarne l’autentico volto, irrompendo e capovolgendo una quotidianità che, ingabbiata entro una ripetitività macchinosa ed esasperante, pare aver perso qualsiasi senso esignificato. Ecco che al di là della superficie ciò che resta appare sgretolato, frantumato, senza più appigli certi e la lunga e spossante ricerca di Marcello, che si muove inconsciamente alla ricerca di un barlume di salvezza e di autenticità, si inceppa, devia continuamente e ogni volta che sembra in procinto di giungere ad un punto fermo e stabile da cui ripartire, si dimostra illusoria e inutile. Il disagio del protagonista si riflette anche e soprattutto entro le relazioni con più figure femminili come Sylvia ed Emma, nelle quali Marcello pare cercare freneticamente conferma o motivazione.

Altalenando costantemente, senza mai privarsi del suo tocco leggero e inconfondibile, sacro e profano, spinte energiche e riflessioni esistenziali, allucinazioni e dialoghi frenetici, Fellini ci consegna il suo primo capolavoro, che gli vale a pieno merito la Palma d’oro a Cannes e che lo introduce, quarantenne, nell’olimpo del grande cinema internazionale, in cui lo troviamo tuttora come presenza fissa e ancora luminosa.  


Marcello e Sylvia.

8½.

 Film forse tra i più autobiografici, 8 ½ risale al 1963. Qui il protagonista è nuovamente Marcello Mastroianni, vero e proprio alter-ego attoriale di Fellini, nelle vesti però di Guido Anselmi, regista in preda ad una crisi produttiva autoriale, alla costante ricerca di un’ispirazione, un’immagine, una scintilla che possa finalmente dargli la spinta e il coraggio necessario per affrontare l’ideazione e la gestazione di un nuovo film, che rimane perennemente in stato embrionale, senza mai approdare ad alcun sviluppo. La narrazione ha inizio in una stazione di cure termali, dove il protagonista cerca di risolvere il proprio affanno fisico e mentale, ma, come è tipico dello stile felliniano, il percorso di cura non fa altro che acuire i dubbi e le psicosi riguardanti sia il proprio lavoro, sia la propria vita privata, minata da vari e continui problemi relazionali con la moglie.

In un’alternanza di fantasie, visioni, ricordi, l’onirico è più che mai indistinguibile dalla realtà. Sarà durante lo svolgimento di una conferenza stampa che Guido affermerà pubblicamente di rinunciare a girare il suo film. Tuttavia, la celeberrima scena finale della pellicola sembra attuare un inaspettato capovolgimento di fronte; lo stesso Guido, infatti, probabilmente colto da un’improvvisa epifania, finisce con il comprendere intuitivamente che la sua intera esistenza è in realtà perfettamente incastrata entro un disegno geometrico più ampio e preciso. Un disegno che gli appare per la prima volta giusto, sensato, meritevole, alimentato dall’incontro con tutte le persone che hanno fatto parte, con maggiore o minore partecipazione, della sua vita.

Guido.

“Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita […]. Mi sento come liberato, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare! Ma non so dire… Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io, io come sono non come vorrei essere e non mi fa più paura”.

I richiami al vissuto e al lavoro dello stesso Fellini appaiono lampanti. Ad essere chiaramente sottolineata è la pressione costante e lo stato angoscioso ai quali è costretto ogni regista, soprattutto nella fase primaria di progettazione di ogni nuova opera; sensazioni e umori contrastanti, causati in maggior grado dall’inevitabile ansia di non deludere le aspettative del produttore e del pubblico, di far contenti tutti senza però privarsi mai delle proprie convinzioni e del proprio bagaglio di idee e riflessioni.

Emblematica la scena dell’Harem, attraverso cui – grazie al meccanismo onirico che coinvolge Guido – Fellini mette in mostra con spavalderia e genialità i meandri più reconditi dell’inconscio maschile: tutte le figure femminili che hanno costellato la vita del protagonista sembrano vivere nella sola adorazione di lui, all’interno di un Harem suddiviso in due piani, dei quali uno riservato alle donne ancora giovani e appetibili e l’altro destinato al solo stazionamento di quelle più vecchie, ormai logore e disincantate, vittime dello scorrere irrefrenabile del tempo, e di cui Guido preferisce non curarsi.

Il film si aggiudica nel 1964 l’Oscar come miglior film straniero e consacra Fellini, rendendolo sempre più fonte d’ispirazione primaria per intere schiere di futuri cineasti.

Scena finale di 8 1/2

Amarcord.

Dopo 13 anni da La dolce vita e dieci esatti da 8 1/2, Amarcord, terza e ultima perla della triade dei capolavori felliniani, esce nelle sale nell’anno digrazia 1973 e rappresenta senza dubbio per il regista riminese la prova più autobiografica, un vero e proprio ritorno alle origini.

Dopo aver magistralmente raccontato e rappresentato Roma in ogni suo interstizio, dopo essersi fatto a lungo cantastorie dei caffè di Via Veneto, con le sue dive, giornalisti e paparazzi, dopo aver portato alla ribalta i lati oscuri di ogni medaglia apparentemente lucente di quell’Italia a cavallo del boom economico, Fellini torna adattingere alla propria biografia e si lascia andare ai ricordi della propria gioventù in Romagna negli anni Trenta, venando le proprie memorie con la sua tipica ironia sottile, abbandonandosi ad un atteggiamento di festosa nostalgia, senza scadere però mai in puro e abusato autobiografismo. Ecco perché i personaggi e le situazioni della sua spensierata infanzia si caricano sempre di un carattere universale, perdendo in tal modo superflue determinazioni puramente autoreferenziali ed entrando a far parte di uno spazio di reminiscenza condivisa da un’intera generazione (e non solo).

Grazie alla forza poetica che incornicia i volti e accompagna ogni singola ripresa, il film si muove e si sviluppa con grazia e leggerezza, aiutato in ciò dalle musiche sempre imprescindibili di Nino Rota, altalenando sensazioni e umori che riescono a toccare tasti e corde atemporali, in cui ogni attento spettatore non può non riconoscersi almeno un po’. Vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero, Amarcord è un film iconico, la cui grandezza è riconosciuta ad ogni latitudine.

Come se non bastasse, a suggellare la sua influenza e fama imperitura, vi è il fatto che lo stesso titolo “Amarcord” (univerbazione di “a m’arcord”, che in dialetto romagnolo vuol dire proprio “mi ricordo”), è entrato poi a far parte stabilmente del nostro vocabolario, nonché del nostro dire quotidiano.

Titta e la Gradisca.

La collaborazione con Nino Rota.

La collaborazione con Nino Rota accompagnò il periodo più florido della produzione felliniana. I due tennero sempre a ricordare le modalità del loro primo incontro, impregnato di magia come sarebbe stato lo sviluppo del loro rapporto. Secondo il racconto, Rota si sarebbe recato occasionalmente alla stazione degli autobus abitualmente frequentata da Fellini. Quest’ultimo si sarebbe avvicinato catturato dalla visione dell’uomo, chiedendogli quale autobus stesse aspettando. Rota rispondendo cortesemente pronunciò un numero di autobus, ma Fellini fece notare come quel numero non fosse destinato a passare di lì, e che l’attesa sarebbe stata vana. Ma fu proprio nel pronunciare queste parole, che i due videro giungere il mezzo verso di loro.

L’ascendente sulle arti all’estero…

Non v’è dubbio che, come più volte ripetuto, il cinema di Fellini abbia influenzato una ingente quantità non solo di cineasti a lui contemporanei o successivi, ma anche di intellettuali di vario genere e dediti ad altre arti.  

Martin Scorsese, nell’ideazione e nella scrittura dei personaggi di Mean Streets  s’ispirò ai caratteri de I VitelloniWoody Allen sviluppò e lavorò su Stardust Memories partendo da un’idea dichiaratamente tratta da , tanto che la critica americana arrivò a stroncare il film proprio per questa sua intrinseca tendenza imitativa, pericolosamente vicina al plagio. Persino la scena iniziale del film, incentrata su di un sogno in bianco e nero, è alquanto similare all’inizio del capolavoro felliniano, dove Mastroianni sogna di volare. In Manhattan, inoltre, Fellini e i suoi personaggi diventano addirittura materia di discussione e di comparazione; Isaac infatti esordisce rivolgendosi a Mary con queste parole: «Sono persone interessanti i tuoi amici[…] Sono un cast per un film di Fellini». Analoghi temi felliniani sono ripresi in Harry a pezzi. Bob Fosse nella realizzazione di Sweet Charity e Cabaret crea espliciti richiami rispettivamente a Giulietta degli spiriti e La dolce vita. Ingmar Bergman ha più volte ammesso di rispecchiarsi, seppur con le dovute distanze e differenze, nel percorso dell’amico Federico. Peter Greenaway ci ha consegnato un esplicito omaggio al regista girando Otto donne e mezzo.

… e in Italia.

In Italia Giuseppe Tornatore è stato tra i primi a dichiararsi espressamente ammiratore di Fellini, richiamando in modi più o meno espliciti Amarcord in Nuovo Cinema Paradiso. Ma l’influenza felliniana è stata certamente decisiva anche per registi come Matteo Garrone e in ultimo Paolo Sorrentino i cui film come Il Divo, La grande bellezza, Youth, Loro, sino alla serie televisiva The Young Pope, sembrano essere legati da un  filo conduttore d’identiche strutture e tòpoi invocante Fellini, al punto tale da far sorgere la perplessità, in capo alla critica, che il regista campano nulla si fosse inventato ex novo, ma che avesse attinto più del dovuto a scenari e visioni già mostrate tra gli anni ’50 e ’60. Sorrentino ad ogni modo, per stroncare qualsiasi tedioso commento concomitante all’aggiudicazione del meritato Oscar nel 2014, tagliò corto avvalendosi di un aforisma picassiano “i mediocri imitano, i geni copiano“.

È stato però Ettore Scola a recare l’omaggio più sentito e toccante all’indimenticato regista romagnolo, dedicando alla sua memoria Che strano chiamarsi Federico (da cui il titolo di questo articolo), definito da Scola come “un piccolo ritratto di un grande personaggio”, capace di segnare un punto di non ritorno nel panorama culturale cinematografico italiano e internazionale.

Locandina del docufilm di Ettore Scola.

Fellini in musica.

L’influenza nel mondo musicale, per quanto meno visibile e sottolineata, non è meno importante. È stato il The Wall Street Journal , riportando una intervista a Paolo Contead asserire che «ascoltare le canzoni del musicista astigiano è come avere un film di Federico Fellini nelle orecchie». Lo stesso Conte ha poi dichiarato a proposito del brano che descrive lo strip-tease di un’odalisca in una antica sala da ballo, intitolato L’orchestrina : «Mi illudo che il testo non sarebbe dispiaciuto al mondo di Federico Fellini».

A prescindere dai richiami e dalle influenze più o meno acclarate da parte di numerosi cineasti, l’eredità felliniana e il suo testamento cinematografico hanno capillarmente modificato l’idea stessa di cinema e il suo lascito rappresenta un pozzo senza fondo da cui è possibile attingere e trarre spunti per potenzialmente innumerevoli capolavori del domani.

Claudia Costanzo.

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