“Lo chiamavano Jeeg Robot” è il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, attore, musicista e regista di genere, dopo quattro cortometraggi (Basette), già ispirati al mondo dei fumetti e dei cartoni animati.
Il cinema di genere in Italia non è mai stato cinema ufficiale (tranne per l’horror), soprattutto perché a noi manca per ragioni storiche una narrativa di genere in qualsiasi forma. C’è un po’ di giallo, ma molto meno che altrove e quasi solo negli ultimi decenni, mentre non ci sono sostanzialmente né fantascienza né horror né avventura. Meglio: tutto questo c’è, ma solo nei fumetti. È proprio partendo da una cultura che è fatta di fumetti e di generi e stando lontano dai colossal hollywoodiani che Gabriele Mainetti è riuscito, primo nella storia del nostro cinema, a fare un film popolare italiano di supereroi. L’equilibrio tra l’adesione ai canoni del genere e il coinvolgimento del pubblico è ineccepibile: il film funziona non tanto perché ricorda una storia di genere, ma perché le storie di genere funzionano.
Mainetti però, nonostante una regia coscienziosa con sprazzi di spettacolarità, non riesce a rendere tridimensionale il personaggio interpretato dignitosamente da Santamaria: troppo sbrigativa la caratterizzazione del protagonista. Essa non lascia il tempo al fruitore di analizzare molte cose, l’esempio che è saltato agli occhi dopo la visione riguarda il suo passato: risolto in un breve flashback. Troppo poco. Al contrario, Luca Marinelli interpreta un cattivo degno del migliore manga orientale e non solo, con uno slancio da diavolo della Tasmania (non fa altro che darci la conferma del talento vulcanico espresso in “Non essere cattivo”). Forse il finale un po’ troppo frastagliato, ma volendo premiare l’originalità stiamo parlando di un’inezia.
Consigliato, se amate i racconti di genere di qualsiasi tipo.
Francesco Folletti
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