“Lo chiamavano Jeeg Robot” è il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, attore, musicista e regista di genere, dopo quattro cortometraggi (Basette), già ispirati al mondo dei fumetti e dei cartoni animati.
In una Roma scossa da strani attentati terroristici, Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), che vive di espedienti e abita solo in un palazzo popolare, un giorno ruba un orologio in centro e viene inseguito dalla polizia. Si nasconde tuffandosi dietro una chiatta nel Tevere, proprio dove sono stati scaricati abusivamente dei bidoni di una sostanza tossica non precisata. Torna a casa, e dopo qualche giorno di malessere si rende conto di essere diventato fortissimo, quasi immortale. Un affare di droga andato male incrocia la sua storia con quella della banda dello Zingaro (Luca Marinelli) e lo avvicina ad Alessia (Ilenia Pastorelli), una ragazza traumatizzata dopo la morte della madre che vive nel suo palazzo ed è morbosamente legata alla serie di animazione giapponese Jeeg robot d’acciaio.
Il cinema di genere in Italia non è mai stato cinema ufficiale (tranne per l’horror), soprattutto perché a noi manca per ragioni storiche una narrativa di genere in qualsiasi forma. C’è un po’ di giallo, ma molto meno che altrove e quasi solo negli ultimi decenni, mentre non ci sono sostanzialmente né fantascienza né horror né avventura. Meglio: tutto questo c’è, ma solo nei fumetti. È proprio partendo da una cultura che è fatta di fumetti e di generi e stando lontano dai colossal hollywoodiani che Gabriele Mainetti è riuscito, primo nella storia del nostro cinema, a fare un film popolare italiano di supereroi. L’equilibrio tra l’adesione ai canoni del genere e il coinvolgimento del pubblico è ineccepibile: il film funziona non tanto perché ricorda una storia di genere, ma perché le storie di genere funzionano.
C’è anche un rapporto mal riuscito tra Roma e le sue periferie; Tor Bella Monaca è solo una cornice di cui non se ne vede mai il contenuto: il degrado. Si limita a dare un quando e dove limitandone la potenza evocativa lasciata in mano all’immaginario di chi è seduto in sala (se il protagonista adotta certi comportamenti voglio sapere se l’ambiente che lo circonda ne è una delle cause). Il gruppo di personaggi che ne fanno parte, sono vivi e profondi, in particolar modo quello di Ilenia Pastorelli (passata dal Grande Fratello ad un’interpretazione straordinaria, ndr) che si muove agilmente sul quel confine labile che separa ironia e profondità, anche se gran parte del pubblico non è stato in grado di coglierlo a giudicare da certe risate udite in sala a battute che avrebbero richiesto invece una riflessione. Ma non ricadono né nella commedia che pullula in molte pellicole nostrane, né nel cinismo sociale che i nostri registi impegnati amano frequentare. Sia la sceneggiatura sia la regia in questo senso sono consapevoli, perché si muovono con grazia e naturalezza senza mai lasciare intendere quanto siano, non controcorrente, ma atipiche.
Mainetti però, nonostante una regia coscienziosa con sprazzi di spettacolarità, non riesce a rendere tridimensionale il personaggio interpretato dignitosamente da Santamaria: troppo sbrigativa la caratterizzazione del protagonista. Essa non lascia il tempo al fruitore di analizzare molte cose, l’esempio che è saltato agli occhi dopo la visione riguarda il suo passato: risolto in un breve flashback. Troppo poco. Al contrario, Luca Marinelli interpreta un cattivo degno del migliore manga orientale e non solo, con uno slancio da diavolo della Tasmania (non fa altro che darci la conferma del talento vulcanico espresso in “Non essere cattivo”). Forse il finale un po’ troppo frastagliato, ma volendo premiare l’originalità stiamo parlando di un’inezia.
Consigliato, se amate i racconti di genere di qualsiasi tipo.
Francesco Folletti