In un’era come quella del digitale, caratterizzata dalla possibilità di ottenere tutto a portata di un click, la fruizione dell’opera artistica (specie nelle arti visive) diviene un meccanismo passivo nel quale lo spettatore si riduce a un vedere più che a un guardare: le immagini ci scorrono di fronte agli occhi ma noi siamo assopiti, divorati da un consumo bulimico e fuori controllo. La missione, non impossibile ma nemmeno alla portata di tutti, è quella di far tornare a gioire l’occhio (ri)attivando cuore e cervello, di innescare quella scintilla che ci consente di immergerci in un mondo che non è il nostro seppur per un tempo limitato. Chi può farsi carico di tale onere? Restringendo il campo all’arte cinematografica e ancor più nello specifico ad un cinema come quello hollywoodiano che ambisce ad un pubblico vasto e differenziato, la risposta starebbe in quegli autori capaci di creare l’atmosfera del film evento, dono che in pochi possiedono e che ci riporta ai fasti in cui andare al cinema equivaleva all’andare a teatro.
Quentin Tarantino è indubbiamente uno di quei pochi e la
Concentrandosi
Dopo Bastardi Senza Gloria (2009), ambientato durante
Su loro quattro si concentra la prima parte di film svolta quasi integralmente in una diligenza, un lungo prologo nel quale il regista persevera insistentemente nel lasciare da parte l’azione dando spazio ai suoi celebri dialoghi. Pur risultando meno frizzanti del solito in alcuni tratti (ma forse da questo punto di vista siamo stati fin troppo bene abituati) essi mostrano una volta di più l’importanza della parola sia nel cinema di Tarantino che nella storia degli Stati Uniti: diversamente da Steven Spielberg, che nel suo ultimo lavoro ci mostrava la faccia di un’America, che la usa come una potente arma persuasiva necessaria al dialogo e alla pacificazione, per Tarantino essa è fonte di odio e inganno; la repulsione verso un diverso che è ritenuto responsabile di ogni sventura trasforma la comunicazione in un’aspra rivendicazione; nessuno si salva (uomini, donne, bianchi, neri, messicani, tutti discriminano venendo allo stesso tempo discriminati), la parola diventa uno strumento di offesa e falsifica tutto ciò che riesce a scampare alla bufera e ad entrare nell’emporio. La minaccia da cui devono guardarsi tutti non è dunque l’ambiente esterno, il quale viene relegato a poche raggelanti inquadrature di un Wyoming innevato, ma risiede nelle persone: odia il prossimo tuo come te stesso, sembra essere la massima dei personaggi di Tarantino. Se nessuno è chi dice di essere e nessuno è meritevole di fiducia, allora ci sono tutte le carte in tavola per fare dell’emporio un teatro delle apparenze da cinema giallo (infarcito però dal rosso dei sardonici effetti splatter) nel quale il 70 mm diventa una provocazione: un formato grande che serve a dilatare le quattro mura dell’emporio invece che esaltare gli spazi aperti di un West che fa solamente da sfondo.
Per l’ottavo film (dagli otto personaggi) di Quentin Tarantino il voto può essere uno solo, nell’attesa che trascorrano gli anni e che ci si possa rendere conto dell’effettiva portata di un’opera che paga il doversi confrontare con precedenti troppo illustri apparendo comunque destinata a lasciare il segno.
Voto: 8
Piero Di Bucchianico
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