Questa è la storia di una serie, di una grande occasione che ora non c’è più.
Questa è la storia di Superjail!, una serie televisiva animata. E’ stata mandata in onda su Cartoon Newtork (più precisamente su Adult Swim, blocco televisivo di Robot Chicken e Rick & Morty) tra il 28 settembre 2008 e il 20 luglio 2014, per 36 episodi su 4 stagioni (le prime tre da 10 episodi e l’ultima da 6). Ambientata in una SuperPrigione all’interno di un SuperVulcano (un vulcano dentro ad un vulcano), vengono raccontate le piccole avventure (11 minuti a episodio) e la vita quotidiana di questo complesso carcerario. Fatto di stragi, squartamenti, crudeltà e torture, il tutto con umorismo macabro, nonsense e tono slapstick.
Un esempio lo dà tranquillamente l’intro.
Ogni puntata inizia con una piccola gag, stile cough gag dei Simpson. Il primo è Jackknife, un semi-schizofrenico e gorgogliante ladruncolo intento a rubare/speculare/rapinare/estorcere/assassinare/maltrattare qualsiasi cosa o persona abbia a tiro.
Il secondo è Jailbot, un robot fluttuante monolitico. E’ capace, grazie alla sua capacità contenitiva stile Eta Beta, di contenere più armi pesanti nel suo iper-nano-tecnologico sistema di un’armeria dell’Armata Rossa. Nonché di arrestare Jackknife, anche a costo di fare più danni di quanti ne stia facendo in quel momento il ladruncolo (praticamente Jackknife sta a Jailbot come una granata ad una bomba atomica…).
Conclusa l’ecatombe, può iniziare il trasferimento forzato di Jackknife a SuperJail, in volo tra case, montagne, città, mari, fiumi, branchi di unicorni, diorami a grandezza umana, ballerine, mostri qualsiasi, una bocca gigante fumosa, fino a giungere alla SuperPrigione. E il tutto con la foga musicale della colonna sonora dei Cheeseburgers, “Comin’ home”. Con una intro del genere già la prima volta avevo gridato al miracolo, un’occasione ideale. E anche i personaggi propri dello show non erano malvagi.
I personaggi chiave – tolti i già citati “Grattachecca e Fighetto” dello splatter comico e virulento – sono stavolta The Warden, Alice e Jared. Il primo è il proprietario della Prigione, una semi-divinità grazie alla sua dote metamorfica e alla sua immortalità. Nonché una terrificante parodia di Willy Wonka e del Cappellaio Matto (ecco come rovinare due film dell’infanzia con un solo personaggio…), totalmente dipendente alle sue macchine, alla sua paranoia, e al suo amore grazie-al-cielo mai corrisposto per Alice.
Quest’ultima è l’unica guardia della Prigione, un ammasso di rabbia, muscoli pompati e di tette siliconate. Dopo aver scoperto la sua omosessualità, innamorandosi del suo primo direttore carcerario, cambiò (parzialmente) sesso, ma venne cacciato/a da questi, omosessuale ma, ahimè, transfobico. In suo “aiuto” arrivò Warden, cotto fin dall’inizio per lei. E forse conscio e impavido della sua transessualità, e della sua ferocia fatta di istinti sadomasochisti e di bullismo ai danni di prigionieri e collaboratori interni.
Come Jared, il piccolo contabilino dalla testa gigante, una macchinetta calcolomane baffuta e nevrotica, piena di tic alimentari e ludopatici. Ma non-si-sa-come, diventa in seguito la figura più “amica” nei confronti di Alice, e forse la creatura più umana di tutta la serie.
Da qui diventa tutto un “forse”, perché, malgrado i personaggi, il miracolo è diventato presto una occasione mancata. Malgrado i personaggi particolari e la potenza visiva, non tutto funziona. Jared, Alice e The Warden alla lunga annoiano. Così pure la coppia di detenuti gay stile Raimondo e Vianello GangBang, o la controparte ultradimensionale al femminile di tutto SuperJail.Oppure tutti gli altri detenuti “minori”, carne da cannone per le stragi sommarie tipiche ad ogni puntata. O The Doctor, una parodia anche lui del mad scientist germanico da secondo dopoguerra. Oppure i due Gemelli, una coppia di alieni semi–svedesi, simili a Warden per le doti “magiche” ma totalmente dediti al dandismo nerd e al dover rompere le scatole al Direttore ogni santo giorno.
I personaggi quasi funzionano di per sé. Ma la narrazione li sottovaluta costantemente. Lo stesso script si regge solo sulla meraviglia barocca delle immagini e degli sketch slapstick e demenziali, e lascia poco lavoro sui personaggi, limitati a essere banali caricature invece che ottimi spunti. Un’occasione mancata.
Per fare una chiusa a tutta questa descrizione iperbolica, si parla dell’ennesimo programma che se fosse stato sviluppato sarebbe potuto diventare un cult a tutti gli effetti. Ed è inutile chiedersi perché non c’è più, tanto si può fare decisamente poco. Il massimo che si può fare è parlarne, almeno per far dirigere quanti più spettatori o potenziali fan su Youtube o Dailymotion o Facebook ecc. ecc.
Ne vale assolutamente la pena, anche se è un’occasione mancata. Astenersi deboli di stomaco e di humor.
They’re waitin’ for me down below, I’m comin’ home.
Niccolò Mencucci.
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