La regola del Raziocinio

A una settimana dagli avvenimenti di Parigi credo sia necessario almeno tentare di fare il più possibile un’analisi lucida e critica della situazione a cui tutti abbiamo assistito e con ci siamo trovati a confrontarci. Gli attentati e le morti degli illustratori del giornale satirico Charlie Hebdo, a cui sono seguiti i fatti altrettanto impressionanti di venerdì 9 Gennaio, hanno prevedibilmente e legittimamente scosso gli animi di tutti noi, ma ritengo sia indispensabile, specialmente in queste situazioni ad alto carico emotivo, cercare di far prevalere il raziocinio alla pancia.

Che la strage di Parigi sia un episodio da condannare è indiscutibile, come dovrebbe essere sempre l’uccisione efferata di un qualsiasi essere umano; che questa vicenda ci abbia profondamente turbato è altrettanto comprensibile, e probabilmente sarebbe altrettanto ipocrita non ammetterlo: si è trattato di un attacco che i principali media internazionali hanno definito come un attacco al cuore dell’Europa, che sconvolge e stravolge le nostre vite quotidiane. L’atteggiamento che però si è immediatamente diffuso in seguito alla diffusione della notizia mi lascia qualche perplessità:  avrei ritenuto inopinabile la scelta di ergersi a strenui difensori delle libertà di opinione e di espressione (nonché di stampa) se non avessi assistito a prese di posizione forse eccessivamente arbitrarie, e soprattutto sprovviste di una presa di coscienza reale di cosa si andasse a difendere. Ciò che intendo dire è che, a mio modestissimo parere, difendere la libertà di opinione di ognuno dovrebbe significare sostenere la libertà di ognuno di esprimere le proprie convinzioni, i propri pensieri, ma che siano sempre in qualche modo motivati, sorretti da un livello seppur minimo di buonsenso. Penso sia necessario fare questo tipo di premessa per chiarire che, per quanto sia assolutamente inaccettabile morire di satira, risulta allo stesso tempo quantomeno discutibile anche un tipo di satira di cattivo gusto, se non vogliamo dire irrispettosa a tutti gli effetti. Tali mie convinzioni sembrano essere confermate da chi qualche anno fa storceva il naso davanti allo stesso Charlie Hebdo, che con le sue vignette dissacrava e sbeffeggiava il Cristianesimo in modo quasi triviale. Ciò che veramente stento a comprendere è l’atteggiamento da due pesi e due misure che ancora sembra governare, anzi sicuramente governa, il nostro modo di pensare e giudicare i fatti.

Quello che mi chiedo è: era proprio necessario spingersi così oltre? (Sia chiaro, me lo chiederei, anzi me lo sono chiesta, anche vedendo le sopracitate vignette riferite all’occidentalissimo Cristianesimo). Tornando a quelle incriminate, penso che proprio non aiutino a concretizzare il tanto abusato e sbandierato concetto di integrazione, che diciamoci la verità, a noi occidentali illuminati, aperti e progressisti, piace tanto. Tengo a precisare ancora una volta che queste mie affermazioni non intendono in alcun modo giustificare l’accaduto, atto folle, pregevole e ingiustificabile. Quello su cui vorrei far riflettere è che, volenti o nolenti, la globalizzazione ci porta a confrontarci con popoli, culture, persone molto differenti e che fondamentalmente non conosciamo. Il mondo cosiddetto occidentale accetta comunemente il diritto di satira (o quantomeno lo fa da un punto di vista formale), ma non possiamo dare per scontato che accada anche altrove. Lo stesso vale per altri punti cardine del nostro modo di vivere e di pensare, per noi imprescindibili e indiscutibili, ma che lo sono, appunto, per noi. Ciò che ritengo profondamente sbagliato è la presunzione che il nostro sia il migliore dei mondi possibili. Non credo esista un mondo, o una cultura perfetta: credo esistano solo canoni a cui siamo più abituati, che accettiamo perché sono i nostri canoni, frutto della storia del paese nel quale siamo nati o della cultura che ci ha allevato,  ma ciò non può sottintendere scontatamente che siano gli unici esistenti e quindi gli unici degni di essere accettati. La globalizzazione ci mette davanti diverse realtà socio-culturali che ancora non abbiamo capito come affrontare, soprattutto per mancanza di conoscenza e comprensione più o meno reciproca. È in questo senso che probabilmente si potrebbe parlare anche di fondamentalismo democratico, occidentale: una certa attitudine all’intolleranza e alla chiusura mentale ha sempre caratterizzato la natura umana; un’interessante sfida per il futuro sarebbe quella di provare a scalfire e poi a spazzare via questa forma di resistenza, appunto attraverso maggiore comprensione e conoscenza.

In questi ultimi giorni si sono moltiplicati gli appelli a coloro che definiamo islamici moderati affinché si dissociassero con forza dai fatti che ci hanno tanto turbato emotivamente, ma così mi pare di assistere ad una nuova  forma di imposizione, forse più velata ed indiretta, ma non per questo meno subdola. Finché non impariamo a metterci nei panni degli altri, e considerare questi altri come persone al nostro pari, e non come pedine da prendere e muovere a nostro piacimento, problematiche di questo tipo continueranno ad esistere.  Parliamoci chiaro: cos’abbiamo fatto noi per facilitare quest’integrazione che ci piace tanto a parole, ma che stenta a diventare reale ed effettiva? Le banlieues parigine e le periferie romane hanno in comune  elementi significativi, primi fra tutti la situazione di degrado sociale e la condizione permanente di guerra tra poveri che qui si viene a creare e protrarre nel tempo, e che inevitabilmente a un certo punto esplode, provocando uno stato di tensione crescente che si fa ogni giorno più incontrollabile e ingestibile. È bene non dar luogo a facili generalizzazioni in nessuna direzione anche affrontando questo tipo di argomenti: è da sottolineare il fatto che senza ombra di dubbio passi avanti sono stati fatti, ma probabilmente ci si è fermati troppo presto, prima che una reale radicazione sul territorio fosse arrivata a suo reale compimento. È un’operazione che richiede tempo, costanza, che non va avanti da sola, e che soprattutto può portare sì a risultati positivi, ma che devono esser difesi dagli attacchi di chi è diventato sempre più abile nella strumentalizzazione del disagio sociale, sempre più efficientemente modellato a proprio vantaggio; poco importa se gli slogan facili e acchiappaconsensi difficilmente riflettono la realtà effettiva dei fatti. Ciò che conta è ottenere ciò che si vuole: odio e intolleranza indiscriminati, semplici da fomentare e da incanalare nella giusta direzione di voto.

In un contesto così delineato, dove i riferimenti, sia da un punto di vista istituzionale che da un punto di vista di opinione pubblica, scarseggiano o comunque difficilmente riescono ad assolvere la loro funzione, non è difficile ipotizzare che prendano piede e attecchiscano prese di posizioni che potremmo definire antioccidentali e reazionarie, essenzialmente tipiche dei fondamentalismi. Il meccanismo per cui ciò si verifica opera in modo esattamente speculare a quello che governa movimenti e partiti xenofobi e razzisti sempre più presenti in Europa: è il vuoto di potere, la mancata percezione di risposte da parte di chi dovrebbe esser invece preposto all’assolvimento di questo tipo di compito la loro forza principale.

Lo stesso tipo di meccanismo lo ritroviamo anche fuori da quello che un tempo chiamavamo Nord del mondo: lo troviamo in Medioriente o in Africa ad esempio, lo troviamo in quei luoghi che siamo abituati a considerare come pericolose fucine del male, in cui la barbarie e l’indottrinamento antioccidentale assurgono a elementi regolatori della vita quotidiana. Ma cosa sappiamo noi, precisamente, di questi luoghi, dei popoli che li abitano? Suppongo poco o niente. Cos’è l’ISIS e cos’ è Boko Haram che da qualche tempo sconvolge la Nigeria? Non lo sappiamo; o al massimo captiamo qualche informazione confusa che però non ci aiuta ad aver ben chiaro il modo in cui tali movimenti nascono, si sviluppano e prendono vigore. Ci accorgiamo della loro esistenza quando è già troppo tardi e la loro opera di distruzione è già in atto, specialmente (o quasi unicamente) se colpisce noi in prima persona.  Basterebbe però far appello alla storia per capire che quel vuoto di potere, quell’assenza di riferimenti funziona benissimo anche lì: probabilmente globalizzazione significa anche questo.  L’Isis o Isil che dir si voglia non compare dal nulla, ma è l’esito di decenni di precise scelte politiche,  militari ed economiche che vedono coinvolti in larga parte anche noi. La guerra contro Saddam Hussein del 2003 (tanto per fare un esempio) ha lasciato l’Iraq in balia del suo destino, fra divisioni etniche e religiose mai sopite, frutto ancora una volta di un’ingerenza occidentale risalente agli anni ’20 del ‘900 (la Gran Bretagna organizzò il territorio a tavolino al termine della prima guerra mondiale), che ci siamo dimenticati di considerare al momento della ricostruzione, dopo averlo sconvolto per anni. Come potevano non catalizzare l’attenzione e il favore della gente queste correnti estremiste e reazionarie che presentano l’Occidente come il male assoluto? Al momento della decisione della guerra all’Iraq nel 2003 gli attacchi terroristici alle Twin Towers di due anni prima giocarono un ruolo fondamentale nel motivare l’attacco al Paese, il più laico di tutta la zona mediorientale, in nome di un antiterrorismo islamico dai confini labili e incerti, che celava interessi ben diversi, molto lontani dai nobili intenti civilizzatori con cui si è soliti presentarsi. Derive e generalizzazioni di questo tipo sono sempre in agguato e riescono a prender piede, a diventare norma di pensiero e di azione, senza che nemmeno se ne abbia la consapevolezza.

In questo preciso momento storico  cadere in questa sorta di trappola diventa fin troppo facile, e il rimedio, sebbene così presentato possa apparire semplicistico e forse sintetico, si esemplifica in poche parole: comprensione, conoscenza, raziocinio, mai pancia.

 

Alice Masoni

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