American Sniper – Recensione

Il “cecchino più letale della storia americana”: recita così la locandina di American Sniper, adattamento dell’omonima autobiografia di Chris Kyle, soldato americano al quale sono stati attribuiti circa 160 omicidi (ma egli ne reclamava quasi un centinaio di più) compiuti durante i conflitti bellici che si protraggono ormai da più di un decennio in Iraq ed in Afghanistan. Arruolatosi nella sezione speciale Navy Seal e chiamato al fronte dopo l’attacco alle Twin Towers, Kyle deve al suo macabro ruolino di marcia lo status di leggenda fra i suoi commilitoni, i quali vedono in lui un esempio da imitare.

Uscita nelle sale ad inizio anno, l’ultima fatica di Clint Eastwood ha subito catalizzato l’attenzione sia del pubblico che della critica: stabilito infatti il record al botteghino (si parla di più di 90 milioni di dollari incassati, record per l’instancabile regista), il film ha fatto molto discutere per via della presunta opera propagandistica svolta in favore delle politiche di guerra. American Sniper sarebbe dunque per parte della critica un deprecabile tentativo di rinvigorire i fasti delle forze militari che negli USA fanno registrare da qualche anno un calo impetuoso di arruolamenti fra le proprie fila.

Subito sovviene il dubbio che tale lettura sia eccessivamente semplicistica e renda poco onore agli sforzi di un autore che da quasi trent’anni (la svolta avvenne nel ’92 con Gli Spietati) mette la sua amata America di fronte a se stessa e a i suoi fantasmi, minandone così le certezze e sollevandone le contraddizioni.

Anche questa volta il regista natio di San Francisco, repubblicano convinto che ha saputo rimettere in discussione le proprie credenze, si occupa di una storia che va a toccare un nervo scoperto, quello della guerra in Iraq, sulla quale il cinema americano non ha lesinato prese di posizione e critiche (The Hurt Locker di Kathryn Bigelow come anche Redacted di Brian De Palma).
Eastwood non vuole però entrare nel merito di una guerra giusta o sbagliata e non gli se ne può fare una colpa, in quanto l’interesse di questo film biografico è quello di offrire il punto di vista di un soldato che svolge il proprio compito per quanto eticamente discutibile esso sia, mostrandoci gli effetti che la guerra ha sul singolo individuo più che sulla società.

Neanche ciò rappresenterebbe una grossa novità nel mondo del cinema, se non fosse per il fatto che Chris Kyle (interpretato da un sempre più convincente Bradley Cooper) anziché essere un militare logorato dal dubbio ci viene rappresentato come un uomo dalla fede incrollabile in quegli ideali che fin dall’infanzia sente propri.

Dio, patria e famiglia sono infatti i valori che il protagonista non mette mai in discussione: seguendo un destino manifesto, quasi una vocazione, Kyle sente il bisogno di servire la sua nazione e ritiene suo dovere farsi carico di tale onere, dato che i deboli e gli indifesi non sanno proteggersi da soli dai pericoli che incombono (la simbologia cane da pastore-agnello-lupo, che ricorre nel flashback legato all’infanzia, si inserisce perfettamente in quest’ottica).

Quasi a fare da contraltare alla sua sua vista che scorge qualsiasi minaccia anche a distanze siderali, la tenacia e l’abnegazione di Kyle sono accecanti e non gli consentono di distanziarsi dalla realtà bellica anche quando deve riabbracciare la sua famiglia nei saltuari ritorni a casa.
Colpito da disordine da stress post-traumatico, egli dichiara tuttavia di non pentirsi delle uccisioni commesse e di poter giustificare qualsiasi colpo, rimpiangendo solo chi non è riuscito a salvare.

Adottando tale visione è senz’altro plausibile che alcuni abbiano avvertito il sentore di un’opera pro-bellica, ma del resto il ritratto che Eastwood ci consegna è quello di un Chris Kyle a detta di tutti fedelissimo alla sua controparte reale nel bene e nel male che non ne esce da eroe (rifiuta quell’appellativo più volte nel corso del film) per quanto si sostenga il contrario.

La presa di posizione da parte del regista non sta quindi nell’aderire totalmente alle credenze del protagonista ma nel restituirne fedelmente la persona: se la distinzione fra buoni e cattivi, fra esportatori di democrazia e barbari senza pietà appare troppo marcata è semplicemente perché la scelta effettuata in partenza è quella di adottare uno sguardo di una rispettiva parte (non che Eastwood debba giustificarsi di nulla, avendoci regalato nel 2006 lo straordinario dittico Flags Of Our Fathers-Letters From Iwo Jima che narra invece una storia di guerra dall’ottica di entrambe le fazioni).

Estremamente simbolico è infine il fatto che la storia di Chris Kyle sul campo di battaglia si concluda proprio con una sequenza in cui una tempesta di sabbia impedisce a lui (come a noi spettatori) di vedere ciò che lo circonda, come a dire che i confini sono molto più sfumati di ciò che sembra e verificare chi o cosa rappresenti una minaccia è alquanto arduo, tesi che beffardamente sembra essere confermata dal triste epilogo del protagonista il cui commiato è affidato a toccanti immagini di repertorio.

American Sniper è, in definitiva, l’ennesimo episodio riuscito nella carriera del regista, un film dallo stile classico ed inappuntabile che riesce a stare al passo coi tempi (peccato solo per l’evitabile pallottola in slow-motion), non indimenticabile come molti dei suoi predecessori ma dal coinvolgimento assicurato dagli incisivi effetti sonori e dalla regia asciutta di Eastwood.

Fin troppi pregi per quello che è stato definito un modesto film propagandistico.

 

Piero Di Bucchianico

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