Wolfmother – “New Crown” (recensione)

In ogni campo della creatività umana, vi sono delle opere che cambiano completamente l’approccio al loro ambito da parte di chi viene dopo di loro: sono quelli che vengono poi definiti “classici”. Nella letteratura, nelle arti figurative, nella musica, il momento in cui un “classico” vede la luce è considerato una sorta di spartiacque. Ma come ci si rapporta ad un’opera così? Principalmente le scuole di pensiero sono due: c’è chi segue (più o meno pedissequamente) i suoi stilemi, e c’è chi cerca di distanziarsene proponendo un linguaggio ancora nuovo. I Wolfmother, con i primi due album, hanno bene o male riproposto certe sonorità rese famose da band come Led Zeppelin, Black Sabbath o Rolling Stones. Il tutto, però, amalgamato con una originalità di fondo, che ha dato un senso all’esistenza dei primi due album del trio australiano. In particolare il secondo (e ormai penultimo) Cosmic Egg presentava un sound ancora più personale rispetto all’esordio. Con questo New Crown, a sorpresa, troviamo un pesantissimo passo indietro, sia a livello di songwriting che, soprattutto, a livello esecutivo e produttivo. Ma andiamo a scoprire perché.

Ascoltando i brani che compongono la tracklist, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un album scritto, registrato e prodotto in fretta e furia. La prima cosa che colpisce è la produzione: i suoni sono ipercompressi e sporchissimi, sembra quasi di avere per le mani un bootleg. Altro elemento a stupire in negativo (e qui parliamo della nota forse più dolente del disco) è l’esecuzione dei pezzi. Da musicisti indubbiamente preparati come Andrew Stockdale e soci ci si aspetterebbe tutto fuorché ciò che troviamo in questo New Crown. Assoli di chitarra suonati senza un minimo di pulizia, riff di chitarra e di basso in palese disaccordo tra loro, bending stonati, batteria troppo spesso fuori tempo. Le modalità con cui il disco è stato suonato sollevano parecchie perplessità. Se leggere tutto questo potrebbe destare sincera diffidenza, soprattutto tra chi ha apprezzato i precedenti lavori della band australiana, ecco qualche esempio di ciò che abbiamo riportato. Nell’intro di Enemy Is In Your Mind uno tra basso e chitarra è palesemente scordato, altrimenti non si spiega la dissonanza tra le due linee strumentali. Nella titletrack, New Crown, la chitarra solista perde il tempo, recuperandolo poi alla bell’e meglio: possibile che non ci sia stata una sessione in più per registrare nuovamente il pezzo? L’assolo di Tall Ships lascia basiti per la poca perizia nell’esecuzione, nonché per un effetto davvero fastidioso. Nella conclusiva I Don’t Know Why, il batterista Vin Steele sembra davvero faticare a tenere il tempo, con il risultato che quasi ogni battuta si conclude in maniera incerta e davvero imprecisa. Tutto questo lascia davvero basiti, soprattutto considerando l’indubbia qualità dimostrata dai musicisti nei due album precedenti.

A mancare, in questo New Crown, è anche un songwriting all’altezza. A differenza di ciò che era successo nel Self Titled e in Cosmig Egg, qui la ripresa dei classici del rock è davvero sterile e fine a se stessa. Tutto suona già sentito, senza ragion d’essere: brani come la già citata I Don’t Know Why colpiscono per la poca verve delle partiture, e per un andamento ai confini della noia. Certo, brani più riusciti di altri ci sono (l’opener How Many Times), ma in generale si tratta di un disco che riprende i canoni del suo genere di appartenenza senza guizzi.

Il fatto che New Crown sia stato distribuito gratuitamente può spiegare solo in parte il prodotto che ci troviamo di fronte. Un disco mal suonato e mal prodotto, con canzoni che riprendono sonorità già sperimentate in lungo e in largo, senza alcunché che le differenzi né che dia loro un senso di esistere. Chi scrive ha apprezzato molto i due precedenti lavori dei Wolfmother, soprattutto il più personale Cosmic Egg: sembra però che questa band abbia già detto tutto ciò che aveva da dire. Potrebbe essere plausibile che tutto ciò sia stato fatto seguendo un progetto iniziale ben definito: che i suoni sporchi, la fretta di registrare il disco e tutto il resto siano un modo per rivendicare un certo modo di fare musica tipico dell’”underground”, con grande scarsità di mezzi e pochissimo tempo a disposizione. Mai dire mai; quello che ci sentiamo di dire è che un brano come Feelings, uscito nel 2015, a ben 40 anni di distanza dalla fondazione dei Sex Pistols, sembra davvero fuori tempo massimo.

 

Giacomo Piciollo

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