uReading Special – Intervista ad Alessandro Ticozzi

Questa settimana uReading propone un’intervista a Alessandro Ticozzi, che torna in libreria con il saggio Sull’eclettismo di Alberto Lattuada; nonostante la sua carriera sia ancora giovane, Alessandro è già alla sesta pubblicazione. Il suo principale interesse è quello di raccontare il cinema italiano del dopoguerra e su questo argomento confluiscono tutti i suoi scritti. Oggi proveremo a scoprire insieme a lui i motivi della sua passione, approfondendo in particolare lo stile eclettico di Alberto Lattuada

 

Buongiorno Alessandro, uRadio ha il piacere di presentarti ai lettori del nostro Magazine on-line all’interno di “uReading”, la rubrica settimanale dedicata alla recensioni di libri; eccezionalmente, questa settimana vogliamo proporre un incontro con l’autore e approfittiamo della tua disponibilità per intervistarti.

Comincerei con il chiederti: com’è nata la tua passione per la scrittura? In particolare, quando e perché hai deciso di focalizzare il tuo interesse sul cinema italiano?

La mia passione per la scrittura è nata da ragazzino come forma di sfogo per esprimere le mie idee e la mia personalità: negli anni dell’adolescenza è poi diventata un modo per avvicinarmi appunto pian piano al cinema italiano del dopoguerra e in particolar modo ai suoi tre generi portanti (Neorealismo, commedia all’italiana, cinema d’impegno civile), che io considero il vero e proprio specchio critico della nostra società.

Sei così giovane e hai già all’attivo sei pubblicazioni; ce n’è una a cui ti senti maggiormente legato o che ti rappresenta di più? Perchè?

Io sono legato a tutti e sei i miei libri sinora editi, in quanto in ciascuno di essi ritengo ci sia una parte importante di me: tuttavia quello cui forse sono più affezionato è La voce e il cinema: Arnoldo Foà attore cinematografico, in quanto in questo mio progetto inedito – raccontare appunto la carriera di attore cinematografico di Arnoldo Foà (più conosciuto come interprete teatrale e televisivo) attraverso le sue apparizioni più significative sul grande schermo – sono stato seguito con grande attenzione e generosità dalla moglie Anna Procaccini, cui non a caso ho dedicato in calce il mio volumetto.

Per uReading, ho scelto di concentrarmi sul tuo ultimo libro Sull’eclettismo di Alberto Lattuada principalmente perché ritengo importante parlare e far conoscere le novità editoriali e, in secondo luogo, per avere l’opportunità di focalizzare l’attenzione su uno dei più grandi registi italiani.

Nel saggio ci racconti come, all’inizio della sua carriera nei primi anni Quaranta, Alberto Lattuada sia considerato un “calligrafico” con “fanatica cura dell’inquadratura” e “traduzione della pagina scritta”. Da che cosa pensi possa dipendere questa scelta? Secondo te, si tratta di una questione di stile oppure di una scelta dettata dal particolare momento storico? In che cosa lo stile “calligrafico” di Lattuada può essere considerato in contrapposizione al Neorealismo nascente in quegli anni?

Alberto Lattuada ha esordito come regista cinematografico in un periodo in cui imperava ancora la censura fascista, e quindi l’appoggiarsi a testi letterari – soprattutto ottocenteschi – era un modo per evitare le maglie della sopraccitata censura. Ciò nonostante, sin dal suo primo film – Giacomo l’idealista, tratto da De Marchi – possiamo trovare in nuce gli elementi che caratterizzeranno il suo cinema successivo: gli “umiliati e offesi”, l’attenzione alla protagonista femminile e il conseguente taglio sensuale dato all’opera, l’ipocrisia di una certa borghesia che si para dietro una rispettabilità cattolicheggiante di facciata e, appunto, quella matrice letteraria che – essendo stato Lattuada uomo di buone letture, soprattutto italiane e russe – sarà la costante di quasi tutti i suoi lavori.

Dopo l’esordio calligrafista, nel tuo saggio descrivi un’evoluzione della carriera di Alberto Lattuada in senso Neorealista; non tralasci di sottolineare però che questo regista, pur realizzando film prettamente neorealisti (come Il bandito e Senza pietà), lascia nelle sue storie sempre un qualcosa di personale. In che cosa si differenzia il suo stile da quello dei registi Neorealisti doc (penso a Vittorio De Sica o a Roberto Rossellini)?

L’adesione di Lattuada al genere neorealista è più sentimentale che ideologica rispetto agli autori da te citati, che sicuramente sono stati i massimi esponenti del Neorealismo: per Lattuada è soprattutto un pretesto per sperimentare vari generi cinematografici di cui era appassionato cultore – dal melodramma al gangster movie, attraverso il realismo francese. Ne Il bandito Senza pietà, Lattuada rappresenta una società allo sbando a causa delle macerie – morali forse ancor più che materiali – lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale: per i protagonisti di entrambe le pellicole l’unica soluzione per sfuggire al loro tragico destino è la morte. Per questo Lattuada invoca un ritorno a guardare all’umanità “con gli occhi dell’amore”. 

Molti film diretti da Alberto Lattuada mettono in evidenza la sua vocazione letteraria, come Il cappotto (tratto dall’omonimo racconto di Nikolaj Gogol) oppure La lupa (dall’omonima novella di Giovanni Verga). Nel panorama cinematografico italiano odierno, è possibile rintracciare un regista per così dire di vocazione letteraria? Se si, in riferimento a quale film?

Secondo me con una tal capacità di spaziare nei generi dando sempre così validi risultati no: bisogna tuttavia ricordare che quella di Lattuada era un’altra epoca, e che già allora – non essendosi mai allineato a nessun genere cinematografico o fede politica, e avendo anzi anticipato un certo modo di fare cinema di costume in Italia – era considerato una sorta di “battitore libero” del nostro cinema.

Una delle tematiche care al cinema di Lattuada è quella legata alle vicende degli “umiliati e offesi”, personaggi travolti da eventi più grandi di loro e che non riescono a gestire; l’eroe lattuadiano, tuttavia, riesce sempre a reagire, guardando al futuro e cercando soluzioni. Pensi che questa posizione possa trovare riscontro nell’attuale società? La nostra generazione può essere assimilata a quella del dopoguerra oppure considerata in qualche modo più fragile rispetto ad essa?

Come rispondevo nella domanda precedente, la società italiana del dopoguerra e quella attuale sono troppo diverse per poter essere messe a paragone: pur tuttavia io credo che allora ci fosse maggior solidarietà e generosità, nonché voglia di ricostruire insieme un Paese partendo con il formarne un valore e un’identità nazionale per mezzo della sua cultura, fornendo degli esempi di coerenza morale e intellettuale fortissimi e al contempo additando ferocemente le storture della nostra società.

Ringraziandoti per la consueta disponibilità, ti faccio l’ultima domanda riguardo ai tuoi progetti per il futuro: vista la tua passione per il cinema, hai mai pensato di cimentarti con la scrittura cinematografica? Hai già in cantiere qualche nuova pubblicazione da rivelarci in anteprima?

Da Diario di un cinemaniaco di provincia – che in molti mi dicono avere una scrittura molto cinematografica – la sceneggiatrice siciliana Sarah La Rocca, autrice della postfazione, avrebbe dovuto trarne un cortometraggio: adesso pare che qualcun altro abbia cominciato a interessarsi, chissà che il progetto prima o poi non possa effettivamente partire. Nel frattempo quest’anno usciranno ben due mie pubblicazioni: in primavera Le brave ragazze vanno in paradiso: noi vogliamo andare dappertutto, un libro inchiesta sulle ragazze che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo; mentre in autunno L’inviato dalla rete 2, un secondo volume con le mie interviste passate on line tra il 2013 e oggi. E sto, naturalmente, pensando a nuovi saggi su altri grandi registi e interpreti del cinema italiano del dopoguerra per i prossimi anni.

 

Maddalena Sofia

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