uRadio verso gli Oscar 2017: “Il diritto di contare”

L’edizione 2017 della cerimonia degli Oscar si terrà al Dolby Theatre di Los Angeles il 26 febbraio. Nel frattempo, noi di uRadio continuiamo a fornirvi opinioni sui film candidati.

Oggi analizziamo “Il diritto di contare (Hidden Figures)“, film del 2016 diretto da Theodore Melfi con tre candidature (Miglior film, Miglior attrice non protagonista a Octavia Spencer, Migliore sceneggiatura non originale a Theodore Melfi e Allison Schroeder). Basato sul libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly, la pellicola racconta la storia vera della matematica, scienziata e fisica afroamericana Katherine Johnson, che collaborò con la NASA tracciando le traiettorie per il Programma Mercury e la missione Apollo 11.

Protagonista della pellicola è Taraji P. Henson, affiancata da Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons.

Di seguito due commenti molto diversi tra loro.

Aurrette D. Djoumbi. Di che cosa tratta “Il diritto di contare”? È un film biografico e drammatico tratto dal libro di Margot Lee Shetterly, che racconta la storia di tre colleghe afro-americane. Insieme, sono state i cervelli di una delle più grandi operazioni della storia. Senza la Johnson, in particolare, John Glenn non sarebbe stato il primo americano nello spazio, o forse sarebbe morto in missione. Senza di lei, gli Stati Uniti non avrebbero messo piede e bandiera sulla luna. Nel cast abbiamo: Taraji P. Henson aka Coockie Lyon nella serie “Empire”, che interpreta Katherine G. Johnson, un vero genio della matematica, riuscita a salvare la missione grazie ai suoi brillanti calcoli; Octavia Spencer interpreta Dorothy Vaughan, una calcolatrice di talento che sogna la promozione; Janelle Monae, cantante presente in “Moonlight”, interpreta Mary Jackson, una donna con tutte le capacità per diventare un ingegnere, tranne il buon colore di pelle e il buon sesso; ritroviamo anche Kevin Costner che interpreta il ruolo del capo degli ingegneri della NASA e Jim Parsons aka Sheldon Cooper nella serie “The Big Bang Theory”, nei panni di un ingegnere, alquanto insopportabile.
Il film senza essere un capolavoro ha i suoi momenti forti. Il soggetto del film è ben elaborato. Vi è soprattutto un ritratto di tre donne, tre amiche con la pelle nera in un’America segregata degli anni ’60. Estremamente brillanti nella loro carriera, affrontano tutti giorni le condizioni degradanti imposte dal loro colore, come i bagni riservati alle “colored women” (Katherine doveva correre per un km ogni volta che doveva andare in bagno, perché nella palazzina dove svolgeva il suo nuovo importante compito, non erano presenti bagni per “colored”, ndr) o ancora l’episodio della Jackson che, per laurearsi in ingegneria, dovette chiedere il permesso ad un giudice, riuscendo poi a diventare la prima donna afro-americana ingegnere. Il regista ha saputo, con intelligenza e finezza, oscillare tra tenerezza, umorismo, ribellione e denunciare l’assurdità della situazione che hanno vissuto queste donne.
“Hidden Figures” ricorda molto il film “For Colored Girls” perché riesce a farci ridere su un argomento che avrebbe potuto (e che dovrebbe) essere preso come un dramma. Alcuni potrebbero vederci un desiderio incessante di ridurre tutto al razzismo, al sessismo o ai clichés, tuttavia essi vengono trattati con tono leggero. Un tono che, però, proprio con l’ironia, evidenzia meglio l’assurdità alla base della non mescolanza neri / bianchi, o il maschilismo che pretendeva di definire donna=casa.
Quando si guarda “Il diritto di contare” risulta abbastanza difficile credere che stia parlando di una realtà di cinquant’anni fa. Forse, di passi avanti non ne abbiamo fatti ancora abbastanza. E questo non soltanto per i neri, ma per le donne in generale, per tutti coloro a cui vengono tolti i diritti o negata qualche possibilità. Non è cambiato quasi niente. La segregazione non è ancora scomparsa dalle menti e le disuguaglianze verso le donne sono ancora attuali. Quello che sono riuscite a fare Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson è semplicemente incredibile: questa storia meritava di essere raccontata e conosciuta da tutti. Nonostante le barriere, queste tre donne hanno avuto un ruolo significativo nella costruzione del mito americano. A mio parere, è un film che potrebbe accontentare tutti: i matematici (che potrebbero cimentarsi a risolvere le equazioni presentate nel film), le femministe, i cosiddetti “colored people”, i militanti dei diritti umani… tutti potrebbero godere di questo film.


Nicola Carmignani. Il soggetto della pellicola avrebbe anche qualche potenzialità: tre donne di colore nell’America dei Sessanta tentano di ascendere la scala sociale attraverso le proprie capacità, pur zavorrate dall’handicap di essere doppiamente discriminate in quanto femmine e afroamericane. All’atto pratico il risultato è però desolante: registicamente il film è asettico e procede stancamente di sequenza in sequenza con il pilota automatico, senza guizzi o particolari idee espressive. La scrittura dei personaggi è grossolana e crea macchiette appena accennate: se della protagonista, della quale si sa solo che “è brava a fare i calcoli”, è rappresentato un debole background familiare che in nulla – e sottolineo: in nulla – influisce sulla vicenda principale, delle coprotagoniste si ignora proprio tutto, eccetto la loro situazione di disagio che riusciranno a superare grazie alla loro forza – peraltro: il processo di conquista dei diritti non è che appaia così arduo, anzi risulta piuttosto moscio –, mentre le figure di contorno hanno proprio lo spessore della carta velina: da una parte il piattissimo capo-cattivo-ma-buono, dall’altra il collega antipatico messo lì solo per far esclamare allo spettatore “guarda! c’è Sheldon Cooper!”. Le prestazioni attoriali sono assolutamente normali e non salvano lo spettatore dalla noia mortale attraverso la quale si protrae il film, i cui pregi praticamente si limitano solo agli apprezzabili sforzi profusi nel ricostruire le scenografie e i costumi. Perfino la traduzione del titolo è discutibile: laddove l’originale “Hidden Figures” lascia perlomeno intendere la tematica della pellicola in modo garbato, il titolo italiano ha una magniloquenza del tutto fuori luogo. In sostanza, “Il diritto di contare” è un film insalvabile su argomenti che, per quanto importanti, restano sviliti dalla pochezza della noiosissima messa in atto. Al pari dei recenti “The Imitation Game” o “La teoria del tutto” vorrebbe essere un biopic che, al netto di una presenza registica tutto sommato marginale, punta sulla bontà delle prove attoriali dei suoi protagonisti: la differenza è che, stavolta, queste prove non sono proprio granché.

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