Non è facile raccontare la notizia di una strage, specialmente quando non sei un giornalista e centinaia di altre voci, più autorevoli e accreditate, si affastellano nella classica convulsione mediatica. Quindi non mi soffermerò sulla cronaca di un 13 Marzo che presto sbiadirà negli annali del terrorismo “a casa degli altri”. Anche se, in realtà, a prescindere dalle vicende personali che possono farci sentire più o meno rammaricati per le decine di vittime dell’ennesima autobomba esplosa ad Ankara, stiamo parlando dei confini dell’Europa, poche ore di volo. Turchia, i nostri vicini.
Cosa sta succedendo in Turchia?
Ne sentiamo parlare quotidianamente per i negoziati con l’Unione Europea relativi alla questione dei rifugiati siriani, rinviati al 17 Marzo dopo il veto dell’Ungheria e la titubanza generale. Ne sentiamo parlare spesso in merito alla soffocante censura imposta ai media nazionali, che cntinua anche dopo l’eclatante arresto di Can Dündar, del giornale di opposizione Cumhuriyet: poche settimane fa anche la redazione di Zaman, testata legata al controverso e influente Fethullah Gülen, è stata completamente scardinata e i suoi giornalisti sostituiti da colleghi meno ostili all’AKP, il partito di Erdoğan.
Ne sentiamo parlare, ormai quasi ogni mese, per stragi più o meno nebulose, talvolta all’ombra dei minareti di Istanbul, ma molto più spesso nella capitale anatolica. Non posso dimenticare, infatti, la mattina del 10 Ottobre 2015, quando, durante una manifestazione per “Lavoro, pace, democrazia”, organizzata da diversi sindacati e dal partito filo-curdo HDP, due bombe sono esplose davanti alla stazione ferroviaria di Ankara, causando 102 vittime. “La più grande strage della Repubblica Turca”. So che l’emotività non dovrebbe permeare un pezzo giornalistico, ma chi scrive non ha potuto che piangere di fronte ai video (mai diffusi dai media italiani, ndr) della mattanza e dei fiumi di sangue. Come si può non tremare davanti ad un messaggio di un’amica, medico sul posto: “ho fatto massaggi cardiaci tutto il giorno”?
I colpevoli vengono individuati nell’ISIS, ma la situazione è molto più complessa ed è rischioso sbilanciarsi. Basta ricordare (e questi sono fatti e non induzioni) che i primi poliziotti arrivati sul posto vennero aggrediti dai manifestanti feriti. Inoltre, pochi giorni dopo, durante una protesta massiccia avvenuta ad Istanbul per chiedere la verità, i manifestanti esponevano striscioni con scritto: “sappiamo chi è stato” e “governo assassino”. E la settimana successiva il popolo turco sarebbe stato RI-chiamato alle urne, dopo sei mesi di assenza di governo. Alle precedenti elezioni di giugno infatti, due eventi notevoli avevano destabilizzato il paese: da un lato, il partito filo-curdo HDP superava per la prima volta l’impossibile sbarramento del 10%, entrando finalmente in Parlamento, con tutti i festeggiamenti del mondo occidentale democratico. Dall’altro, il partito di Erdoğan perdeva la maggioranza dopo 13 anni di potere assoluto, e non riuscì (o non volle) costituire un governo di coalizione. E quindi, festeggiamenti finiti, si ritorna a votare, appena dopo la strage del 10 Ottobre. Immagino di non dovervi dire come andò a finire questa seconda elezione.
Per riprendere la scia del sangue, meno di un mese fa, il 17 Febbraio, un’autobomba si accosta ad un convoglio militare a Kızılay, centro di Ankara, e 30 persone perdono la vita. Il Teyrêbazên Azadiya Kurdistan, un gruppo militante per l’autonomia del Kurdistan, rivendica l’attacco. E poi ancora: 13 Marzo. Di nuovo Ankara. Di nuovo Kızılay. Di nuovo un’autobomba. Ancora vittime, questa volta tutti civili, persone che aspettavano il bus. Per ora non rivendicato. Serpeggia l’ipotesi della paternità del PKK, il gruppo armato curdo che da mesi denuncia gli attacchi dell’esercito turco contro gli insediamenti curdi in Iraq e Siria, in quella che dovrebbe essere una campagna anti-ISIS.
Una delle prime reazioni da parte di molti amici e colleghi turchi, ma condivisa anche dalle pochissime testate indipendenti, è stata: dimissioni!. Un governo che non riesce a proteggere il proprio popolo ha un problema. E come risponde il governo a questa critica?! Chiudendo immediatamente tutti i social network: Twitter, YouTube, Facebook. Evitare il propagarsi di immagini e video, annientare ogni possibilità di commento o interpretazione degli eventi. Anche questi sono fatti, non mi sto schierando. Sto solo raccontando che ieri sera, chi era ad Ankara, per segnalare tramite FB il suo stato di salute o contattare i propri cari, doveva accedere con il browser Tor, che crea un IP falso dislocato in un altro paese, aggirando il blocco del Tribunale. Sto solo raccontando che ieri sera, mentre cercavo informazioni su agenzie non governative, due siti “liberi” su tre sono stati oscurati. E tutto questo ben prima che la caccia alle streghe iniziasse, ma ancora nel bel mezzo della conta delle vittime, il cui numero, peraltro, non torna.
Sì, la Turchia ha decisamente un problema, forse più di uno.
Profondo e sordo è il dolore che rimane addosso al popolo turco. Costernato, disorientato, pensava che gli anni dei colpi di stato, dei governi militari, del terrorismo curdo, fossero finiti per sempre seppelliti in quella fucina di progresso cementificato che è Istanbul, o dentro il fulgore dei centri commerciali di Ankara. Invece, sia gli accademici delle prestigiose università turche (fra le migliori al mondo), sia gli anziani Imam di Fatih, ora temono.
E con loro, noi tutti dobbiamo temere e riflettere. Perché la Turchia, sia geograficamente che a livello identitario, è la porta della nostra Europa.
Valentina Carbonara