Terni, multa per le donne vestite “provocanti”. Il caso tra polemiche, femminismo e storia

Oggi parliamo di Terni: il sindaco Leonardo Latini decide di combattere la prostituzione vietando minigonne e scollature. Ebbene, non è l’inizio di un docufilm sul medioevo ma è ciò che sta accadendo oggi nella città umbra. Secondo il primo cittadino non solo l’abbigliamento ma anche «saluti allusivi» dovranno essere sanzionati con una multa che va dai 200 ai 500 euro. Ripercorriamo le lotte femministe che hanno permesso alle donne di poter indossare la minigonna tra pregiudizi, cultura dello stupro e una politica bigotta

L’ordinanza è valida dal 1 ottobre 2021 al 31 gennaio 2022 quando più che a Terni per certi versi sembrerà di stare a Kabul. Niente vestiti provocanti, la pena? L’equiparazione a prostitute e una multa salata da pagare. Una legge che invece di aumentare la sorveglianza in determinate zone della città, andrà a limitare quella che è la libertà di ogni donna nel volersi vestire come vuole. Ma non solo questo: diffonde una cultura maschilista che altro non fa che colpevolizzare le donne.

Ma chi stabilisce come è opportuno vestirsi? Cosa è decoroso e cosa no? Qual è l’unità di misura nell’immaginario del sindaco? Una scollatura, una gonna, un tacco… Ma soprattutto esiste un comportamento o abbigliamento che possano indurre alla prostituzione? La risposta a quest’ultima domanda è chiaramente no, mentre sulle altre domande il sindaco non sembra avere neanche lui le idee molto chiare. Da giorni Latini cerca di difendersi sostenendo che i giornali abbiano montato e ingigantito il tutto. Ma andiamo allora a leggere l’ordinanza in questione.

“Saluto allusivo”, “abbigliamento indecoroso o indecente”, esattamente cosa significano? Varrebbe la pena capire anche cosa si intende per “comportamenti diretti in modo non equivoco ad offrire prestazioni sessuali a pagamento”. Questa legge, per come è stata scritta, è alquanto ambigua. Come si può dedurre che una donna stia o meno esercitando la professione, solo in base al vestiario o all’atteggiamento? è chiaro che oggi non possiamo trovare questo tipo di linguaggio all’interno di un’ordinanza.

Per questo non sono mancate le polemiche:

«Come al solito si colpevolizza la donna e non si determinano politiche per contrastare il fenomeno della prostituzione», ha commentato il coordinamento donne della Cgil di Terni, al Corriere della Sera. «La mercificazione del corpo femminile è un tema culturale a cui vanno contrapposti pensieri e azioni contro la disparità di genere. Sul tema della prostituzione sarebbe stata auspicabile una riflessione sullo sfruttamento sessuale, sul maltrattamento fisico e psicologico delle donne, considerando che l’80% di quante si prostituiscono è vittima della tratta».

Secondo Federico Burgo, vice presidente dell’associazione Terni Valley, “si puniscono le donne e la loro libertà di vestirsi, in linea con un ideale di società antica e patriarcale, oltre che paternale”.

Leonardo Latini, sindaco di Terni

Voi capite che nel 2021 è pura follia. è in questo modo che Latini vorrebbe “superare il degrado del territorio” ma ciò che sta contribuendo a fare è solamente far sprofondare la sua città nella cultura dello stupro.

La cultura dello stupro

Si chiama “cultura dello stupro”, dall’inglese rape culture, quella cultura che include tutti quegli atteggiamenti che minimizzano, incitano, alla violenza sulle donne tra i quali la colpevolizzazione della donna, l’oggettivazione sessuale, lo slut shaming, termine utilizzato per stigmatizzare comportamenti e desideri sessuali femminili percepiti come non accettabili. Potreste chiedervi cosa c’entra questo con l’ordinanza del sindaco… bene, ve lo spiego subito. Le frasi “indossava una gonna troppo corta”, “se l’è cercata”, “si comportava come se ci stesse provando”, sono classici esempi di questa bigotta cultura dello stupro. Questa legge induce a fomentare questi pensieri.

A sostegno di questa tesi mi preme riportare le parole lasciate a “Repubblica” da Michela Cicculli, attivista della casa delle donne Lucha y Siesta: “La cultura dello stupro minaccia il diritto allo sviluppo di una libera e piena cittadinanza. Come posso essere cittadina a pieno titolo se non sono libera di camminare dove e come voglio?”


Storia: le lotte e l’arrivo della minigonna

Nata come simbolo dell’emancipazione femminile e divenuta uno dei trend più amati della storia. Sto parlando della minigonna, indumento simbolo di ribellione femminile nella lotta contro il maschilismo e l’oggettivazione del corpo. La minigonna nasce agli inizi degli anni ’60 dalle abili mani della stilista Mary Quant. A partire dalla fine del 19esimo secolo i primi movimenti femministi iniziarono a ritenere le gonne portate allora troppo scomode. I tessuti erano pesanti e le gonne lunghe fino a terra. L’accorciamento si produsse fin dall’inizio anche in quello di altri capi facendo nascere i mini-abiti, che di fatto univano magliette e maglioni al concetto di minigonna.

Nel 68, per una sorta di spirito di ribellione dovuto al poter mostrare liberamente ciò che era considerato scandaloso e volgare, le minigonne si accorciarono drasticamente. Arrivarono in alcuni modelli a soli pochi centimetri dalla biancheria intima che copriva i genitali, divenendo anche un simbolo della conquistata libertà sessuale femminile. All’uso di miniabiti si associò, per un breve periodo, anche l’abbandono del reggiseno come segno di protesta e di supporto ad una nuova idea della donna, non legata all’immagine precedente di cui i capi di vestiario tradizionale (abiti lunghi e reggiseno) erano un simbolo.

Anni 60: non solo successo ma anche critiche ai mini abiti

Tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70 l’indumento si diffonde anche in paesi a maggioranza islamica che successivamente l’avrebbero vietato come l’Afganistan. Ci fu anche chi denunciò la minigonna come un passo indietro nella lotta per la parità dei diritti delle donne, essendo un qualcosa che le avrebbe rese solo un oggetto di attrazione sessuale.  In Francia nel 1967 la polizia accusò esplicitamente le minigonne di favorire atti di violenza verso le donne. Fortemente critica nei confronti del nuovo capo di abbigliamento fu anche la Chiesa, in quanto ritenuto un abito poco decoroso. Nel cercare di contrastare la diffusione delle minigonne non vennero usate solo questioni di morale pubblica, ma anche mediche. Diversi medici infatti iniziarono ad indicare nel nuovo indumento la possibile causa di reumatismi e futuri problemi circolatori.


Legge Merlin? Da abolire!

In Italia la prostituzione non è proibita ma sono puniti tutti quei comportamenti a essa collegati come il favoreggiamento, l’induzione, il reclutamento e lo sfruttamento. La legge Merlin, in vigore dal 1958, ha portato alla chiusura delle case di tolleranza lasciando un vuoto giuridico. La non regolamentazione infatti ha aumentato gli abusi sessuali. Questi spesso non vengono denunciati dato che, le prostitute, per non esporsi, preferiscono non rivolgersi alle forze dell’ordine. Inoltre, il reato di favoreggiamento (di cui può essere accusato chi affitta un appartamento o ospita in casa una prostituta) incentiva l’esercizio in strada, e, quindi il degrado urbano (come sta accadendo a Terni). Ed è per questo che a mio parere la legalizzazione permetterebbe alle sex workers di pagare tasse e contributi, sottoporsi ai controlli sanitari periodici e dunque di essere tutelate. 

La prostituzione come scelta: basta tabù

Non possiamo far finta di nulla: la prostituzione è sempre esistita e continuerà ad esserci, tanto vale regolamentarla per avere un controllo della situazione. Il vero problema è che di sex work si parla molto poco e male. Così facendo lasciamo che avvenga di tutto, perché è chiaro che dove c’è segreto e illegalità non possano esistere tutele. L’idea diffusa è che esista un solo tipo di prostituzione: quella in cui le donne sono obbligate come per la tratta delle immigrate ridotte in schiavitù dai protettori. Ma la professione non è solo questo: c’è chi decide coscientemente di esercitarla. C’è chi la pratica con gioia, mettendoci la faccia e parlandone apertamente. Potrei prendere l’esempio di Valérie May, 29enne spagnola che ha scelto di lavorare come sex worker ma che quotidianamente viene insultata per questo (link per l’intervista https://www.femaleworld.it/valerie-may-femminismo-prostituta/. Come lei tante altre.

La verità è che il nostro paese non è pronto

Lo abbiamo visto con il Ddl Zan o con gli innumerevoli casi di medici obiettori di coscienza che non permettono alle donne di abortire. La prostituzione non è socialmente accettata. Un po’ come per l’aborto, si crede che chi decide di intraprendere questa strada sia soggetto a drammi psicologici. é un controsenso se ci pensiamo che in una società in cui si richiede sempre maggiore libertà individuale, si debba spesso spiegare che godiamo del diritto di fare ciò che vogliamo con il nostro corpo. Spetta alle persone decidere come vivere la propria sessualità, se debba essere romantica, assente, o anche retribuita. Sono semplicemente scelte.


Alice Muti Pizzetti

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