Tutti abbiamo in famiglia un partigiano, una staffetta, un prigioniero di guerra, un testimone diretto del fascismo e della resistenza.
Un’esigenza che, mi sembra, sia comune a tutti loro è quella del ricordo: scrivere, raccontare, trasmettere per non dimenticare. «Non bruciare queste memorie»: mio nonno ci ossessiona con questa frase da decenni.
Eppure, non per tutti il ricordo è lo stesso: tendiamo spesso a dimenticare che, anche semplificando al massimo, l’Italia è stata spaccata dal consenso al duce. Molti hanno rinnegato il proprio passato squadrista, le amnistie hanno sollevato cortine fumose e l’Italia, almeno dopo il 2 giugno ’46, ha potuto riprendere il percorso verso la democrazia.
Eppure, non tutti sono stati disposti a tacere il proprio consenso al fascismo.
Uno spettacolo provocatorio?
Stringiti a me prende in prestito il titolo da una poesia di d’Annunzio. Messo in scena al teatro dei Rozzi il 25 aprile, è stato replicato a Colle Val d’Elsa mercoledì 6 giugno.
Vediamo in scena un interno borghese, il ‘salottino buono’: lei che lavora ai ferri e lui alla scrivania. Nel giorno dell’anniversario della Liberazione, lui, Giorgio (Ugo Giulio Lurini), parla di fascismo; lei, Elisabeth (Silvia Franco), della qualità degli ingredienti per la minestrina che sorseggeranno a cena. Una coppia che, come recita il testo della poesia, è alla ricerca della verità segreta su cui il loro amore possa riposare per sempre.
Anche qui, l’esigenza del ricordo e della memoria: i posteri devono sapere.
Già, ma che cosa? E chi sono quest’uomo e questa donna, così logorati da un passato che non sembra affatto passato?
Il telefono squilla. Ecco che la chiamata spezza i gangli cronologici della vicenda e ci riporta ad una serata di marzo del ’44.
Il passato che riemerge.
Giorgio è ai vertici del comando a Siena: medico chirurgo, sostiene la repubblica di Salò ed è prefetto della città per conto di Mussolini. Nel pomeriggio, la sua azione è stata fondamentale per scovare e reprimere una banda di esaltati, una manciata di giovani banditi refrattari a schierarsi dalla parte della patria in un tempo così difficile.
Racconta così alla moglie le vicende degli ultimi giorni: come questi ragazzi siano stati trovato durante un controllo autorizzato, come siano stati legalmente condannati, come fosse giunto per loro l’ultimo istante schierati davanti ad un muro.
Non per tutti, però. Un bandito potrebbe essersi salvato …
La storia ha due facce.
Il problema? I ragazzi che lui chiama banditi sono quelli che il resto d’Italia chiama (e chiamerà) partigiani. Il controllo regolare sarà definito rastrellamento. La loro cristallina azione punitiva prende il nome di eccidio, nello specifico l’eccidio di Montemaggio.
Giorgio è Giorgio Alberto Chiurco, contradaiolo, medico, squadrista e prefetto di Siena. Per le azioni che racconta alla moglie, la corte d’assise lo condannerà a trent’anni di carcere, salvo poi essere amnistiato dalla corte d’appello di Perugia.
Insomma, è questione di punti di vista? Questi ragazzi erano sporchi banditi o liberatori della patria? Eroi o colpevoli? Giovani con un ideale o elettrizzati da idee sovversive? Come risponde Elisabeth, anche se erano banditi non lo sapevano, e per questo erano innocenti.
Un inno alla democrazia.
La storia non è però fatta solo di punti di vista, ma anche di punti fermi. L’Italia condanna i fascismi che calpestano diritti e libertà personali, condanna le violenze e la repressione.
La storia è fatta, tuttavia, di persone. Uomini e donne che ogni giorno si svegliano e ne scrivono una parola o una frase, animati da idee e convinzioni che spesso non sanno giustificare.
Per questo il testo di Federico Romagnoli e la regia di Giuliano Lenzi riesce in un’impresa formidabile. Portare per un secondo lo spettatore dall’altra parte della storia, dalla parte di chi nel 25 aprile legge una disfatta e non una vittoria, spinge a riflettere. A porsi domande. A chiedersi come sia possibile che certe idee siano condivise anche da chi non è cresciuto durante il (o prima del) ventennio.
In un periodo in cui sinistre memorie non sembrano più tali ma si riaffacciano come reali sulla cronaca quotidiana, in cui certi diritti che sembravano dati per acquisiti sembrano incerti, questo spettacolo ci ricorda quanto sia importante ripartire da noi.
Non da noi stessi: da noi. Come cittadini d’Italia, d’Europa, del Mondo.
Stringiamoci a noi, raccontiamoci queste pulsioni retrive (e quale mezzo migliore del teatro per esorcizzare questi orrori?) e discutiamone. Ci sentiremo meglio. Dopodiché, cerchiamo di sbarazzarcene una volta per tutte.
Mattia Barana.