Spotlight: regia d'inchiesta

Secondo i ben informati, la corsa all’Oscar 2016 per il miglior film dell’anno si è ridotta a essere una faccenda a due tra “La grande scommessa” e “Spotlight” (rifiuto intenzionalmente la trasposizione italiana del titolo, sbagliata e fuorviante). I due film rispondono effettivamente all’esigenza dell’Academy di costruire su pellicola le basi della futura narrazione degli Stati Uniti degli anni Zero, crocevia di storie di uomini ed eventi. Oltre alla dimensione temporale, le due pellicole condividono la presenza di un cast stellare, un racconto corale che si dipana dalle azioni di questi ultimi e la volontà di svelare un evento attraverso un processo di ricerca e scoperta che si snoda lungo tutto il film. In quest’ottica, “La grande scommessa” perde rovinosamente il confronto: da una parte non riesce a trasmettere efficacemente argomenti oggettivamente complessi, dall’altra si poggia su un non-racconto che vorrebbe sfruttare un crescendo che, in fondo, rimane solo sulla carta, soprattutto a causa della mancata evoluzione di personaggi monodimensionali scritti piuttosto male.

Venendo a Spotlight, ci troviamo di fronte a un prodotto molto più raffinato: laddove “La grande scommessa” esagera con una regia tronfia ed eccessiva nel tentativo di appassionarci a una storia mediocre, il film di Tom McCarthy opta per un approccio piano e scarnificato, basato sulla linearità che il racconto di una complessa inchiesta esige, portando a casa un risultato molto più potente di quello dello sfidante. L’aspetto che salta all’occhio fin dai primi minuti è infatti l’approccio sobrio e pulito delle inquadrature, che ricerca l’essenzialità del racconto per non aggiungere elementi di disturbo a una vicenda che, da piccola quale sembra in principio, si rivelerà fatta di una valanga di informazioni da organizzare e correlare. L’andamento a momenti è compassato, ma mai veramente privo di ritmo, e stringe inesorabilmente il cerchio attorno al proprio obiettivo secondo gli stilemi del racconto procedurale, fatto di incontri con vittime, ricerche in archivi soffocanti e sottili duelli verbali giocati sulle sfumature di ciò che non viene detto.Spotlight

La storia è risaputa: il pool di giornalisti d’inchiesta più quotato di Boston (lo Spotlight, appunto) su pressione del sornione ma risoluto nuovo direttore si immerge in una torbida vicenda di pedofilia perpetrata negli ambienti cattolici della città, arrivando a scoperchiare un pentolone che tirerà in causa i massimi rappresentati del clero locale. Come già scritto, il racconto rimane lucido e legato alla fattualità dell’inchiesta: vediamo l’agire dei giornalisti, che parte a tentoni ma si fa progressivamente largo tra le maglie dell’omertà dilagante; immaginiamo soltanto e solo nella misura che serve alla ricostruzione dei fatti, gli orrori commessi e i colpevoli che vi si nascondono dietro, spesso cristallizzati in semplici ritagli, in carteggi o in dichiarazioni di avvocati reticenti. La linearità del metodo investigativo è talmente esasperata che ogni tanto si impantana pure, dispensando perfino qualche momento di noia.

Ed è proprio quando il film rischia di deragliare del tutto che arrivano quelle correzioni che lo rendono, se non un film perfetto, di sicuro il miglior film possibile sulla base della sceneggiatura disponibile: mentre, infatti, “La grande scommessa” poneva attori troppo grandi in personaggi limitati, il cast di Spotlight diventa la chiave di volta di tutto il film, ciò che ne veicola sia il significato che la dignità artistica. È attraverso i giornalisti e le ripercussioni dell’inchiesta nella loro intimità che il regista sfoga le tensioni emotive latenti che si accumulano sotto l’epidermide di un’asettica ricerca, trasformando il procedurale in interiore: c’è chi vive il conflitto di dover distruggere la sincera devozione di una parente, chi è ossessionato dall’orrore dell’impunità in cui navigano i protagonisti della propria inchiesta, chi riceve pressioni per ridimensionare l’entità dello scandalo, chi si accorge di essere suo malgrado complice di anni di silenzi. Neanche il giornalista più freddo può soffocare la nervosa verità di essere un uomo turbato dal continuo contatto con la bestialità. In questo senso la sequenza più bella e significativa, in un film misurato dove perfino i movimenti della camera sono centellinati, è quella che contiene l’inquadratura più lunga e scomposta: la corsa atterrita di un padre, nella notte di un tranquillo quartiere residenziale, alla scoperta della terribile verità che il mostro si può trovare anche lì, a un paio di isolati dai propri figli.

In sostanza, nel novero dei candidati all’Oscar come miglior film, Spotlight è di sicuro uno dei due o tre le cui velleità di trionfo hanno maggior ragione di esistere: non è un film perfetto, forse non è neanche il migliore degli otto, ma la regia ferma e sicura riesce a mettere in ombra i pochi problemi di sceneggiatura, proponendo un film di qualità sul bel racconto di essere uomini al servizio della verità, la reale protagonista della pellicola.

Nicola Carmignani

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