Partire è un po’ come morire. Mi ricordo esattamente quando queste parole mi sono state rivolte, ages ago, e da quel momento mi sono sempre apparse come un cartello lampeggiante, tutte le volte che sulle spalle mi sono caricata di uno zaino più pesante (aggiungeteci una borsa a mano e il computer ed otterrete la perfetta riproduzione di un mulo umano).
Il fatto è che non so se quelle parole siano esattamente vere, o se per lo meno valgano per me. So solo che tutte le volte che parto mi sento spezzata, avverto il dolore della perdita di una parte quasi fisica di me, come se fosse troppo pesante da sopportare abroad, e al check-in corressi il rischio di pagare una sovrattassa. È un dolore che paradossalmente apprezzo, è un campanello d’allarme, ti avverte che qualcosa sta succedendo, che sei stata colpita e hai bisogno di alleggerirti per partire col verso giusto.
Ma cosa ne resta di questi pezzi di noi? Si perdono fra le scale del condominio, i campi di ulivi nel tragitto per l’aeroporto, la disordinata fila al gate, le gocce di pioggia di un cielo londinese?
Anche questo è un quesito irrisolto, ma mi piace pensare che, se anche non dovessimo ricongiungerci, essi siano andati a riempire piccoli vuoti nelle persone che mi sono care, mi piace pensare che una parte fisica di me ce l’abbia qualcun altro, perché quel vuoto che mi si era creato sono riuscita a colmarlo con l’affetto di persone nuove. Ora sono fatta per tre quarti di italianità e un quarto di un mosaico di meravigliosa unicità, eterogeneo, i cui tasselli provengono dalle più disparate nazionalità ed etnie, e spero proprio che questa volta la colla faccia il suo dovere.
Dolce del giorno: milkshake alla vaniglia, perché chi l’ha detto che il gelato si mangia solo d’estate?
On air: The passenger, Iggy Pop
Giulia Mele
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