SONO ANDATA AD AUSCHWITZ E (NON) SONO TORNATA

Oggi ricade il settantesimo dalla liberazione di Auschwitz. Oggi non è un giorno banale. Oggi vorrei affondare la mano nella densità dei miei tessuti ed estirpare l’organo del conformismo. Se sapessi dove fosse ficcato, certamente lo getterei, sanguinante, sulla parete della mia nuova stanza da studentessa fuori sede, lasciandolo scivolare piano piano sulla superficie morta del muro, gonfio di un rosso scurissimo, per compiacermi di quel quadro splatter, come di un trofeo.

Ma non so dove sia. Sono nichilista, come tutti. Come tutti voglio dire, urlare, sbraitare. Sono individualista. Come tutti, attraverso atroci guerre private. Instauro regimi totalitari sul mio continente corporeo e come tutti, non so liberarmi dalle miei allucinazioni nevrotiche, impregnate di risentimenti banali.

Una settimana fa sono partita per Auschwitz. Una settimana fa, ho perso qualche grammo di me. E’ sparso ancora laggiù, da qualche parte. E’ un debito tutto sommato consono. Dopo aver visto qualcosa di così pervasivo, si ha davvero voglia di diventare liquidi e spargersi per terra, per scomparire assorbiti dal terreno o, più semplicemente, per sottrarsi al dover dire a tutti i costi.

Su Auschwitz francamente non ho nulla da dire. Cosa potrei dire? Potrei ripetervi il nome che ho pronunciato davanti a quell’eterno esercito di alberi rachitici, gli stessi che hanno finito per affumicarsi i rami settant’anni fa, ai fumi dei forni crematori. Quel nome è appartenuto a Liliana Segre. Quello che è sensato sottolineare è proprio questo: Liliana Segre, si chiamava. Come tutti. Si chiamava, come tutte quelle innumerevoli vittime della Storia, che tutto d’un tratto non si sono più chiamate, non si chiamano più. Non hanno più un nome. L’apologia del senso non cercherò neppure di farla. Cosa potrei fare allora con la mia storia banale e slavata? Che discorso accattivante potrei inventarmi per ingenerare la rivoluzione del senso?

Questo momento storico mi terrorizza. Osservo ventate di arretratezza attecchirsi sui perimetri celebrali di parecchia gente. A chi piange lo sterminio degli ebrei, ma firmerebbe oggi stesso un referendum per chiudere le nostre frontiere, vorrei dire che non merita la mia stima. Non che sia qualcosa di prezioso, la mia stima, ma tanto meglio così. A chi pensa ancora che i Rom rubino i bambini, che i meridionali siano dei terroni, che la famiglia sia solo eterosessuale, che sia giusto investire in aerei da bombardamento, che al tempo di Mussolini tutto andava meglio, che le questioni morali non abbiamo il diritto di cambiare un parlamento, che i musulmani siano tutti degli assassini, bene a questa gente e a tanta altra, vorrei dire che non merita la mia stima. Quello che mi auguro è che non giunga alla ribalta nessuno capace di organizzarla questa gente.

Già, perché l’errore più grande che si commette è quello di considerare i nazisti come delle eccezioni di brutalità e pazzia in un universo dominato dai giusti. “Ho solo eseguito degli ordini”, così hanno risposto, ed è stata la risposta più riprovevole che la Storia potesse immaginare. I detenuti di Auschwitz erano classificati attraverso un triangolino colorato, ogni colore rappresentava una motivazione di detenzione. Quindi in ordine sparso, c’erano gli omosessuali, c’erano i Rom, c’erano gli ebrei, c’erano gli oppositori politici, c’erano i diversamente abili, c’erano intere categorie di persone che non avevano il diritto di abitare il pianeta terra. Oggi nessuno può negare che di triangoli colorati non se ne vedono più cuciti addosso, ma nella nostra testa, quanti triangoli colorati lasciamo fluttuare tra i tessuti molli del cervello? Infiniti. Io stessa sono piena di contraddizioni e non mi avvicinerei mai ad una baraccopoli solo perché ho i vestiti freschi di lavatrice. Questo è pericolosissimo.

In questa giornata non voglio ricordare per commemorare. Voglio ricordare per lanciare un campanello di allarme. Non permettiamo a nessuno di sopraffare le nostre coscienze. Non permettiamo a quei triangoli mentali di diventare tessuto da cucire nuovamente addosso alla gente. Studio letteratura perché combatto costantemente contro il mio razzismo latente. La letteratura è l’unica disciplina capace di livellare i punti di vista. La scienza e la matematica non lo fanno. La scienza e la matematica ci dicono quello che è giusto e quello che non è giusto. La letteratura no. La letteratura sa dar voce ad un’ infinità di tipi umani, ogni tipo umano è un universo di senso con il diritto supremo di abitare delle pagine in bianco e nero. E’ la mia piccola guerra contro il razzismo. Ognuno combatta la propria. Ognuno si cerchi il proprio modo di combattere questa grande contraddizione. Questo è quello che mi aspetto dall’umanità a settant’anni dalla liberazione di Auschwitz. Oggi siamo qui a constatare che tutto potrebbe ancora succedere. Tornare all’era del telefono fisso no, questo è davvero impensabile, ma il ritorno a quegli orrori è così dannatamente reale. Impediamolo.

Lyuba Centrone

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