Simone Graziano torna a unTubo con Frontal: la piena libertà del jazz

Continuano le Jazz Nights di unTubo: Simone Graziano ritorna con Frontal


La musica classica e la letteratura possono incontrare il jazz? E in che rapporti stanno composizione e improvvisazione? Graziano ce lo racconta nell’intervista.


Giovedì 9 novembre, Simone Graziano è ritornato a unTubo con Frontal, il suo gruppo, per una nuova Jazz Night carica di adrenalina. Diplomato in pianoforte al conservatorio di Firenze e allievo della prestigiosa Berklee School of Music di Boston, Graziano si afferma fin da subito come uno dei più grandi jazzisti in Italia, collaborando con artisti di fama internazionale. Frontal vede la collaborazione di Gabriele Evangelista al contrabbasso, Stefano Tamborrino alla batteria. David Binney al sax alto e Dan Kinzelman al sax tenore.

Incontro Simone Graziano mentre sta aspettando gli ultimi due compagni. La serata è particolarmente fredda, ma decidiamo comunque di spostarci fuori per non disturbare il sound-check. Un calice di vino ci aiuterà a riscaldarci.

Simone Graziano (foto di A. Trani)

Allora, inizio col dirti che uRadio è la radio per studenti fatta dagli studenti universitari di Siena. Proprio per questo motivo volevo chiederti come è stata la tua esperienza da studente.

Beh, io ho studiato musica classica al conservatorio di Firenze. Quando ho fatto io il conservatorio purtroppo non esisteva una realtà così strutturata com’è oggi il triennio di jazz, né tanto meno come è il Siena Jazz che invece, in questo senso, ha un’importanza unica in Europa. Diciamo che io sono a cavallo tra due generazioni: una che ha dovuto suonare il jazz da autodidatta; l’altra che ha poi avuto delle strutture istituzionali come è oggi. Quindi sono uno studente abbastanza “atipico”.

A me ha colpito molto che tu abbia una base, appunto, di tipo classico; volevo chiederti in che modo la musica classica e il jazz possano unirsi e convergere l’una sull’altra.

Guarda, da un certo punto di vista è la mia sfida quotidiana: quella di riuscire a far coesistere mondi diversi e apparentemente lontani. In realtà sono la stessa musica. Pensa ai grandi improvvisatori della storia: Liszt, Penderecki, lo stesso Bach, Mozart, tanto per citare nomi così… nomignoli (ride). Erano tutti grandi improvvisatori. Noi purtroppo non abbiamo documenti che attestino delle vere capacità di improvvisazione, ma solo documenti che attestino le loro capacità compositive.

Per me, l’obiettivo è quello di riuscire sempre a entrare e uscire nella musica che scrivo. Mi spiego meglio: io scrivo un brano, magari anche “molto scritto” da un punto di vista compositivo, poi faccio in modo che l’improvvisazione ruoti intorno alla scrittura. Quindi utilizzo il materiale scritto come fonte di ispirazione per l’improvvisazione. Dico spesso questa cosa: voglio fare in modo che l’improvvisazione sia come una composizione scritta, e che la composizione scritta sia come un’improvvisazione. Se uno riesce ad arrivare a questa specie di binomio, secondo me, ha trovato un equilibrio straordinario. Raro, eh (ride).

Parlando proprio della tua musica, è appena uscito un nuovo album, Snailspace. Mi ha incuriosito molto innanzitutto il titolo, ma anche un brano, Emicrania. L’ho ascoltato e mi sembrava la descrizione perfetta di questa malattia. Parlaci un po’ del disco.

Snailspace è un disco che ho fatto in trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso e synth e Tommy Crane alla batteria. E’ uscito un mese fa per Auand, un’etichetta pugliese per cui ho registrato anche i dischi con Frontal. Il titolo vuol dire “a passo di lumaca” e viene da un racconto di Sepùlveda che si chiama Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza. E’ un disco sulla lentezza, non dal punto di vista dell’agogica, ma dell’importanza che bisogna dare al prendersi il tempo nel momento creativo. Non correre, non fare le cose perché c’è un’esigenza di mercato, di promozione, un’esigenza altra da quella che è la musica. Per fare il disco ci ho messo tre anni, ma penso che in questa lentezza si possa effettivamente scoprire qualcosa. Poco, pochissimo, però qualcosina sicuramente arriva.

Emicrania è invece un brano ispirato al libro omonimo di Oliver Sacks, una specie di work in progress sul significato dell’emicrania: tutti i sintomi prodromici, i sintomi durante l’emicrania, i sintomi post emicrania… E’ un rapporto che il soggetto che soffre d’emicrania ha con la malattia. Io stesso ne soffro (ride), e questo brano è un tentativo di buttare fuori da me questa cosa tentando di esorcizzarla. La musica mi aiuta un po’, durante gli attacchi, a sentirmi meglio. L’obiettivo ultimo è mettere nel brano tutte le sensazioni provate durante un attacco.

Non è la prima volta che sei a unTubo. Com’è tornare ogni volta e vedere magari le stesse persone o anche facce nuove?

Beh, questa è la quarta volta che suono qua (ride). Il pubblico cambia un po’ perché è fatto da studenti: è bello vedere che ci sono tante persone nuove ed è bello vedere che quelli vecchi tornano, perché vuol dire che vivono un concerto come un’esperienza nuova. Questo effettivamente è vero, perché Frontal è un gruppo in continua evoluzione: ogni tour, ogni concerto che facciamo aggiunge qualcosa. Per come la viviamo, per come la vivo io, è un tentativo ogni volta di scavare dentro di noi.

Diciamo che ponete idee diverse in un unico progetto.

Sì, è proprio così. E’ il tentativo, ogni volta che si va a suonare, di trovare dei punti di connessione, o almeno provarci. A volte ce la facciamo, altre volte è un disastro: già il fatto di provarci è uno stimolo grosso. Non tutti i gruppi riescono a fare questa cosa.

E c’è un motivo particolare per cui voi ci riuscite? Avete un segreto?

Beh, il segreto è avere una grande stima reciproca ed essere tanto amici l’uno con l’altro. Diciamo che siamo diventati, per un verso o per l’altro, una sorta di family: ci vediamo fuori dalla musica, ci contagiamo nelle scelte musicali che ognuno di noi fa extra-Frontal. Ognuno di noi ha diecimila progetti e ci contagiamo nelle scelte. Frontal è dunque tante cose diverse.

L’esperienza a Boston: come ti ha cambiato, quanto è servita…

Guarda, quando ero a Boston ero troppo piccolo, avevo diciassette anni… Mio padre mi mando lì dicendomi: “vai, è una scuola bellissima”. Io sapevo che era bellissima ma non avevo alcuna conoscenza dell’ambiente. Io sapevo pochissimo all’epoca di jazz, ho studiato solo musica classica. E’ stata un’esperienza bella sotto il profilo umano, ma dal punto di vista delle conoscenze del jazz e dello studio del jazz, purtroppo, ero troppo immaturo all’epoca per capire delle cose. Mi ha dato un metodo, certo, ma lì per lì è stato uno schiaffone.

Il concerto del 9 novembre a unTubo

Finita l’intervista rimaniamo un altro pochino fuori a chiacchierare e mi chiede se sarei tornata a sentire. Ovviamente l’ho fatto, e non ho paura di esagerare nel dire che mi ha aperto un mondo. Si respirava un’incredibile aria di libertà: la leggevi sui volti dei musicisti e degli ascoltatori, perlopiù studenti, lo percepivi attraverso la musica. Il livello era altissimo: è stato fantastico, e conto di riascoltarli ancora live.

Federica Pisacane.

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