a nonno Peppe
Chiariamo subito una cosa, e nel frattempo abbattiamo pure il più grande luogo comune della musica classica: Salieri non uccise Mozart. Non è nemmeno certo che lo abbia odiato, anche se la rivalità tra i due era grande. L’origine di questo enorme malinteso va ricercata in una specie di leggenda metropolitana, immortalata poi nel film Amadeus di Miloš Forman (che tra l’altro consiglio di vedere), e strettamente collegata con il brano di cui parleremo oggi, ovvero il Requiem K626 di, appunto, Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791): si dice, infatti, che sia stato commissionato da un uomo incappucciato a cui viene attribuita, in maniera del tutto infondata, l’identità di Salieri. Probabilmente non è mai esistito nemmeno l’uomo incappucciato. La cosa che tutti sanno è che Mozart lasciò il Requiem incompiuto a causa della sua morte; verrà poi completato dai suoi allievi.
L’organico orchestrale prevede 2 corni di bassetto, 2 fagotti, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, organo ed archi; insieme all’orchestra troviamo un coro di voci miste e quattro solisti: soprano, contralto, tenore e basso. Per l’ascolto vi suggerisco la direzione del grande Herbert von Karajan, che potrete trovare su Spotify e su YouTube; troverete invece il testo qui.
Il pezzo si articola in otto parti, che corrispondono alle parti della messa: Introitus, Kyrie, Sequentia, Offertorium, Sanctus, Benedictus, Agnus Dei e Communio, con alternanza di parti corali e solistiche. Se mai dovesse capitarvi l’occasione di assistere ad un’esecuzione dal vivo non lasciatevela scappare, perché è davvero monumentale.
L’Introitus, per coro e soprano, si apre in maniera maestosa, donando una dignità al dolore: questo effetto è dato dai colpi dei timpani e dallo squillo delle trombe, che fa assomigliare il tutto ad una vera e propria marcia. Prima dell’ingresso della limpida voce del soprano la melodia ha un momento di distensione dove la calma prende lentamente il posto che le spetta; la voce del soprano rompe la sensazione di compattezza data dal coro, le quali voci si sommano e si intrecciano creando un unico muro di suono. Verso la conclusione si ha la ripresa del tema iniziale, ma il brano si interrompe bruscamente e resta sospeso in aria, proprio come la preghiera.
Nel Kyrie invece le cose sono ben diverse. Il solo protagonista è il coro, che verrà messo alla prova dalle difficoltà ritmiche e di intonazione: se ascoltate attentamente vi sembrerà infatti di trovarvi in mezzo ad un vortice. Lo smarrimento è grande, le voci chiedono pietà con angoscia. C’è anche un bellissimo scambio di temi fra il coro e l’orchestra, che contribuisce ad aumentare il senso di perdita della bussola. Il finale non è etereo come il precedente, al contrario: l’accordo finale riecheggia con fare decisivo.
La Sequentia è composta da sei brani, l’ultimo dei quali è il celeberrimo Lacrimosa. Ma anche il primo è abbastanza conosciuto, perché si tratta del Dies irae, che sicuramente avrete già sentito in qualche pubblicità o in un film. Anche questo brano è per il coro; ascoltandolo, pare davvero di percepire l’ira divina, e ci sentiamo piccoli e insignificanti. Il finale forse è l’unica nota stonata, perché sembra troppo frettoloso in confronto alla maestosità del brano. Segue il Tuba mirum per soli, un brano che in confronto ai precedenti pare quasi spoglio, eppure più carico di sentimento personale. Pare davvero che il cantante stia piangendo; meraviglioso è lo scambio immediato tra tenore e contralto. Si passa poi allo struggente inizio del Rex tremendae, cantato dal coro, che somiglia per certi versi al Dies irae. La preghiera qui si fa ancora più implorante, raggiunge l’apice della disperazione e poi, improvvisamente, un pianissimo ci sorprende con la sua enigmaticità. Il finale si disperde quasi inudibile. La palla passa poi ai soli con il Recordare, Jesu pie che a sua volta richiama qualche elemento del Tuba mirum. L’invocazione si fa dolce, quasi innamorata. Nulla a che vedere con l’incalzante angoscia del Confutatis maledictis, che anticipa l’apice assoluto della drammaticità che è il Lacrimosa, l’ultima pagina scritta da Mozart prima di morire. Il coro sembra quasi piangere sommessamente, accompagnato dai violini. La tristezza sembra scemare intorno alla metà del brano, ma è solo un’illusione, perché viene immediatamente ripreso il tema iniziale. L’amen finale si trascina dietro una lunghissima e angosciosa coda. Finisce con questo brano la Sequentia.
E’ la volta dell’Offertorium, affidato al coro e ai soli. Sembra strano che ci possa essere una traccia di allegria in una messa funebre, soprattutto dopo un brano come il Lacrimosa, eppure è così. Anzi, sembra addirittura che ci sia una buona dose di speranza. Il credente sa che, nonostante la disperazione della morte, si può sempre sperare nell’aiuto e nel consiglio di Dio, ma soprattutto è sempre possibile affidare a lui l’anima del defunto. Questa è l’idea che aleggia nei due brani che compongono questa sezione; nel secondo brano viene accentuata ulteriormente dall’angelica pacatezza della musica, turbata ogni tanto da qualche fortissimo carico di speranza, e interrotto definitivamente nel finale, che riprende il primo brano.
Il Sanctus è una vera esplosione di lode verso Dio; i violini sottolineano l’intenzione di voler salire in cielo per meglio lodare Dio. Il Benedictus segue la stessa linea: siamo ormai lontani dalla cupa atmosfera iniziale.
Il Requiem si conclude con l’Agnus Dei e il Communio, lontani dallo stile originale di Mozart. Sembrano quasi due brani a parte. Ormai siamo giunti alla fine della messa, il pianto si è trasformato in rassegnazione e in speranza affinché l’anima del defunto venga accolta nel Paradiso. Il Communio riprende nella forma ritmica il Kyrie, lo avete notato? No? Beh, riascoltatelo con più attenzione.
E sul finale meditabondo del Requiem vi saluto, augurandomi che vogliate seguirmi ancora in questo viaggio, che è solo all’inizio.
Federica Pisacane
Ottimo commento e descrizione dei brani