“Maybe life is the moment between those big moments”. Boyhood, una recensione

Nella rosa dei candidati per la categoria best movie agli Oscar 2015 il fiore all’occhiello è senza alcun dubbio Boyhood, il recente capolavoro di Richard Linklater.
Si tratta di un ambizioso progetto (il cui titolo originale doveva essere Twelve years Project, fino all’uscita di 12 Years a Slave) a cui l’abile regista statunitense lavora da oltre un decennio: l’idea è quella di seguire materialmente la vita del giovane Mason (Ellar Coltrane) dagli otto ai diciannove anni, dalle elementari ad Austin (Texas) fino al college; così per dodici anni Linklater, radunando ogni estate lo stesso cast, ha raccontato la quotidianità di Mason, della sorella maggiore Samantha (Lorelai Linklater), dei genitori divorziati Olivia (la straordinaria Patricia Arquette) e Mason Senior (Ethan Hawke, che con il regista ha girato ben sette film). Un rischio non da poco per Linklater, che ha scommesso sulla tenuta complessiva del progetto e sulle capacità recitative dei singoli attori nel tempo: la macchina da presa li ha infatti letteralmente visti crescere e invecchiare, registrando i mutamenti fisici negli anni, raccontando una storia che, davvero, potrebbe essere quella di tutti noi. L’ ordinaria quotidianità dei genitori separati che si rifanno una famiglia, dei traslochi dolorosi e delle scuole cambiate periodicamente, l’ordinaria trepidazione dei primi amori, la quotidiana apprensione dei genitori che non sono perfetti, ma fanno quello che possono.
Nonostante l’apparente semplicità della trama, iperealistica e tremendamente vicina a noi, Boyhood non è un film semplice, lo si capisce già dal titolo: the Boyhood, l’adolescenza (in inglese l’ adolescenza al femminile è “girlhood”) è una tappa cruciale della crescita, forse la più problematica, rappresenta l’apprendistato che inizia qualunque ragazzo alla vita, è il primo vero ingresso nel mondo. La riflessione a partire da Boyhood mi pare dunque si possa articolare sue due elementi principali : sul suo essere un film che documenta una precisa tappa esistenziale affrontata nella sua durata e, appunto, sul fatto di essere un film che racconta il percorso di formazione di un ragazzo come tanti.
Innanzitutto, Boyhood è un film sul tempo, sulle soglie esistenziali che esso delimita, e lo è dal punto di vista della realizzazione materiale, come abbiamo visto, e dal punto di vista delle strategie narrative messe in campo. Da un punto di vista narrativo l’abilità di Linklater sta nel catturare quelle che del tempo sono le due anime inscindibili: l’istante e la durata; questo duplice effetto è ottenuto dal regista attraverso dispositivi complementari: da una parte fissa le tappe salienti della crescita di Mason e di sua sorella inglobandole all’interno del preciso momento storico che stanno vivendo, attraverso puntuali riferimenti che ritraggono lo spirito dell’epoca (la musica, gli oggetti, gli accenni alle vicende politiche), dall’altra parte Linklater lavora sulla durata rendendo il tempo liquido, privo di cesure nette (in alcuni casi non ci si accorge degli anni che passano). In tal modo il portato esistenziale dell’esperienza soggettiva si fa puntiforme, conta solo per quello che è in se stessa. Del resto Linklater non è nuovo agli esperimenti sul tempo: in Slacker (1991) esso è compresso in una sola giornata (il film segue le vicende di un gruppo di sfaccendati in sole 24 ore), mentre nella trilogia Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight (1995-2013) si dilata seguendo l’evoluzione di una coppia lungo un considerevole arco temporale. Boyhood si inscrive perfettamente nella poetica dell’autore, nel suo persistente e riuscitissimo tentativo di rimodulare e documentare il tempo che scorre.
Il secondo elemento che mi sembra interessante sottolineare è che Boyhood rovescia significativamente il modello del cammino “di formazione”. Se infatti il percorso di crescita del protagonista-eroe del tradizionale romanzo di formazione era usualmente agganciato per tappe episodiche che lo definivano e ne determinavano il senso, nel film non vi sono epifanie rivelatrici, momenti cruciali, apici drammatici; le tappe fisiologiche ci sono (il passaggio dalle elementari al college, i traslochi vari, le nuove amicizie), ma non sono caratterizzate da svolte esistenziali significative, le difficoltà, i cambiamenti dolorosi non sono interpretati come momenti clou o soglie iniziatiche: a ben vedere, non esiste un punto della storia, ma ci si interroga costantemente su quale significato attribuirvi. – What’s the point?- chiede ad un certo punto Mason al padre. Si può fare il punto della nostra esistenza o di un periodo relativamente lungo di essa? La risposta arriverà a qualche fotogramma dalla fine: Mason è appena arrivato al college e sta chiacchierando con una ragazza appena conosciuta, forse la promessa di un nuovo amore (ma questo il regista non ce lo svela): « – Hai notato quante persone dicano continuamente “Cattura l’attimo?” [: seize the moment]? Io tendo a pensare il contrario: è l’attimo che ci cattura – – Sì, è una condizione incessante. Il tempo… è come continuamente fuori, capisci? [: It’s constant…the time…it’s like always out now, you know?] ». E’ il sentimento di esclusione dal flusso del tempo che determina le esistenze particolari, segno che la vita vera è quella che si annida fra le pieghe del quotidiano, quella che non si cristallizza in istanti singoli ma che ha valore soltanto nella sua fluida interezza.
Linklater è riuscito nell’impresa magistrale di aver raccontato il tempo, nella sua qualità ed estensione: una cosa che solo i grandi romanzieri del secolo scorso erano stati in gradi di fare.

Chiara Licata

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