Emivita. Acquacola. Figli di guerra. Gas Town. Frutti della terra. Vitapiena. Saprofagi. Latte di madre. “Alziamo i giri”. Blindocisterna. Bullet Farm. Valhalla. “Fukushima-cani-pazzi”.
Tutto questo solo nel primo quarto d’ora di film: “Mad Max: FuryRoad” travolge lo spettatore come una blindocisterna (appunto!) e lo fionda ex abrupto in uno scenario post-atomico dove tutto, financo il lessico, è una scoperta.
Il franchise di Mad Max nasce nel 1979 per mano del maestro George Miller, che con “Interceptor” descrive un universo caduto in una spirale di violenza senza ritorno, che vede il controllo sociale in mano a poliziotti-vigilantes che rimangono l’ultimo baluardo di legalità contro bande di criminali sempre più influenti. L’immaginario di riferimento è simile a quello del contemporaneo “I guerrieri della notte”, ma saranno gli elementi di distanza da quest’ultimo titolo che sanciranno l’originalità e la fortuna di Mad Max. Laddove i “Guerrieri” abitano un microcosmo urbano e familiare, agiscono secondo codici d’onore e risolvono le questioni a mano o all’arma bianca, l’universo di Miller espande progressivamente la dimensione distopica, trovando respiro negli ampi e aridi spazi dell’Australia rurale (e dal secondo episodio nel deserto), ma soprattutto scardinando ogni regola del vivere civile e riportando l’uomo alla condizione di natura.
Tuttavia, l’aspetto che più caratterizza il franchiseè un altro: tra il primo e il secondo episodio (“Il guerriero della strada”) il mondo di Mad Max subisce un non precisato cataclisma nucleare, che estremizza l’homo homini lupus dell’esordio e che soprattutto fa decollare l’idea diventata celebre del deserto futuristico infestato da veicoli blindati brulicanti di criminali in abito da motociclista cyperpunk (idea senza la quale, per intenderci, non avremmo mai conosciuto “Ken il Guerriero”).
In questo universo si colloca “Fury Road”, quarto capitolo della storia che vede il cambio di interprete per il protagonista (da Mel Gibson a un Tom Hardy eccezionalmente in character) e l’inserimento di una fenomenale Charlize Theron, la cui Imperatrice Furiosa è il motore che regge l’intera baracca: quest’ultima progetta una folle missione di salvataggio e dà il “la” a un inseguimento mai visto su pellicola, che copre praticamente l’intera durata del film e che lo trasforma in un travolgente susseguirsi si sequenze memorabili.
Dall’alto dei suoi settant’anni (e dopo aver prodotto e diretto “L’olio di Lorenzo”, “Babe, maialino coraggioso” e “Happy Feet”, ci credereste?!) George Miller si inventa una regia forsennata e iperespressiva, con transizioni da capogiro dai primi piani ai campi lunghi e la voglia di dimostrare che non solo il cinema d’azione è vivo e vegeto, ma può essere fatto affidandosi al mestiere e all’inventiva.
Non è un segreto che proprio la testardaggine di Miller nel voler girare in pieno deserto reali scene di inseguimento (gli effetti speciali, che pur ci sono, vengono centellinati nei soli momenti di reale necessità) abbia minato in modo profondo le riprese, funestate da continui ritardi, arrivando più volte a un passo dal causare la cancellazione del film. Fortunatamente ci troviamo a raccontare una storia differente, quella di un film di azione che riesce a essere convincente sia come blockbuster sia come produzione qualitativamente eccelsa e di stampo fortemente autoriale.
Sarà sufficiente tutto ciò a far vincere a “Fury Road” l’Oscar come miglior film? Il timore è che no, non sarà sufficiente, a fronte della concorrenza di film che maggiormente assecondano le predilezioni degli Academy: probabilmente la statuetta finirà a Revenant, buon film condito di buone intuizioni e interpretazioni (ironicamente, il Tom Hardy di Revenant è ancora più convincente sia di quello di Mad Max che di Di Caprio) a servizio però di un regista che dopo il bel Birdman ha peccato di superbia, trasformando il materiale tra le sue mani in un artificioso metaforone inutilmente infarcito di dolore.
Chi scrive preferirebbe di gran lunga che si premiasse la genuina spontaneità di un arzillo settantenne con la voglia di far innamorare tutti di un mondo fatto di saprofagi, emivite,blindocisterne: il deserto di Mad Max è un luogo dove il cinema si riscopre in tutta la meraviglia delle possibilità del filmico e l’immaginazione perde terreno solo di fronte alla vitalità del prodotto finito, una metafora dello stesso fare cinema e del prodigarsi per creare un’opera che abbia ragione di esistere in funzione di un viaggio da proporre, di un inseguimento da intraprendere, di un Valhalla da raggiungere.
Se non lo avete visto, recuperatelo. E poi urlate con me: “Ammiratelo!”.
Nicola Carmignani