La bella Italia, che abbiamo sempre narrato nelle sue infinite sfaccettature, è sempre stata per tutti noi in questa rubrica, un punto di riferimento importante dal punto di vista della “terra con maggiore storia e cultura”, ne abbiamo elencato i lati più intrinsecamente negativi e perfidi, ma senza mai perder di vista (è forse proprio questa una delle forze che più ha mosso questo nostro racconto) ciò che questo paese ha rappresentato nella storia.
L’abbiamo vista e sublimata dal punto di strettamente culturale, vedendo in lei quel posto dove è nata la cultura, dove si sono dati i natali alla storia del pensiero e della musica, dove abbiamo accolto i grandi pensatori e letterati, ma ci siamo mai chiesti, se proprio da questo preciso punto di vista, siamo pronti e degni di presentarci al mondo con il nostro titolo di “nazione dalle mille risorse culturali” tanto pure da vantarcene?
Oppure bisognerebbe partire da qui, e da ciò che è ad oggi la scuola e l’università (i centri del sapere per eccellenza), per capire che “l’abito non fa il monaco” e forse proprio su ciò di cui potremmo più inflazionarci, siamo scadenti?
CAPITOLO V
Se facciamo un salto nel passato, vediamo chiaramente, come la storia delle nostre istituzioni scolastiche sia frammentaria e fortemente diversificata e che ancora ad oggi, vi sia un costante e spesso promiscuo cambiamento, sotto ogni lente d’analisi.
Mentre le università nascono ormai quasi mille anni, fa proprio da noi (1088 la prima a Bologna, seguita da Salerno, Venezia e Parigi in Francia), la “scuola” fu strutturata similmente a come la conosciamo oggi molto dopo, per la precisione, ottocento anni dopo, poco prima l’Unità del 1861.
Se fino al primo ‘700 le idee di scuola e di istruzione erano molto vaghe ma soprattutto riservate a pochi (nel 1600 il tasso di alfabetizzazione era del 28% e solo quasi interamente maschile), col nuovo secolo alcuni sovrani illuminati (nel senso stretto della parola, erano illuministi convinti), decisero che la scuola “per pochi” o peggio ancora, “di pochi” (fino a quel tempo le istituzioni per l’istruzione erano quasi tutte religiose e gesuitiche) non poteva più essere accettata, e fu proprio una regina, a porre la scolarizzazione obbligatoria dai 6 ai 10 anni e la costituzione di luoghi specifici dove si formassero i maestri (al tempo due vere e proprie rivoluzioni).
Il programma della regina si sviluppò nel tempo, accompagnandosi ad un vero e proprio duplice processo di laicizzazione e statalizzazione degli istituti di studio, rivolti, tanto a giovani, quanto a docenti (ai quali venivano richieste competenze sempre maggiori).
Solo nel Sud borbonico (ultra conservatore) e nel Regno Pontificio, rimase (ancora per poco) la scuola a “corto raggio”.
Istruzione napoleonica
Sarà il tanto poi odiato Napoleone che, una volta sceso in Italia, formalizzerà la scuola e l’istruzione sulla scia francese, rendendola obbligatoria a tutti, maschi e femmine comprese, senza nessuna forma di differenza e restrizione, nessun limite, nessuna riservatezza, solo tanti incentivi al sapere e allo studio.
Si costruirono edifici nuovi, si proseguì il processo di formazione degli insegnanti, in maniera diversa e innovativa, si dette vita al “lycee”, il liceo, mai visto fino a quel tempo, la prima vera istruzione superiore, si fondarono i vari indirizzi di studio con tanto di laboratori e strumentazioni all’avanguardia, venne resa gratuita l’iscrizione (provvedimento che venne poi soppresso poco dopo), si dette vita a collegi che affiancassero le scuole e si accettò l’insegnamento della religione (non di quella strettamente cattolica però, solo di una rielaborata dal regime), cosa nuovissima, per questa politica spesso miscredente.
Con la fase che precedette l’Unita del 1861, da un lato si rese obbligatoria la costruzione di edifici scolastici ogni 10.000 abitanti, da un altro le prime sommosse di rivolta, portarono ad un lieve rallentamento del processo “positivista” di avanzamento della nostra scuola.
Le riforme unitarie
Ciononostante, grazie ad una serie di leggi approvate da questo momento sino ad oltre la caduta del fascismo, la scuola italiana riuscì a sopravvivere e tra i provvedimenti giuridici presi che si ricordano vediamo: la Legge Casati (del 1859, ma approvata nel 1861).
La suddetta, incentivò la riduzione del numero degli analfabeti, ristrutturò la scuola elementare rivedendone gli sbocchi di studio successivi ed i programmi, (per questioni interne) iniziarono a propendere più verso l’insegnamento dell’educazione civica, che su quello della religione.
Venne poi la Legge Coppino (idea della Sinistra Storica, 1877) che pose a 5, gli anni delle elementari e l’obbligo di frequenza per i primi 3, con sanzioni a chi non avesse rispettato il provvedimento.
Seguì questa, la Legge Orlando (del 1904) che vide apportare degli aiuti economici alle aree più in difficoltà nell’adempiere ai doveri scolastici (costruire scuole, assumere personale, …).
Fu poi il turno della Legge Daneo-Credaro (del 1911) che impose allo stato il pagamento degli stipendi dei maestri, al tempo salariati dai singoli luoghi di lavoro.
Le riforme fasciste
Durante il “ventennio”, arrivò la Riforma Gentile (di stampo ovviamente fascista), che allargò l’obbligo di studio a tutti i cittadini, per tutta la durata delle elementari, e portò ad una prima vera significativa suddivisione degli indirizzi di studio superiori (comprendenti anche quello musicale, risalente addirittura alle riforme napoleoniche).
Questa legge sancì come età minima i 14 anni e aiutò economicamente tutti, qualsiasi scelta facessero, dopo la soglia minima di studio, nei programmi di studio (rivisti ancora); si dette un contributo allo sviluppo dei dialetti locali ma non alle lingue comunitarie o a quelle minoritarie (gesto nazionalista molto forte), valorizzando per ultimo lo studio del canto, del disegno e delle arti sperimentali tradizionali.
la scuola nella fase repubblicana
Con l’instaurazione della democrazia in Italia ci sono state moltissime riforme che hanno cambiato l’assetto delle nostre istituzioni scolastiche, ma nella maggior parte dei casi, hanno agito su determinati settori di essa, in particolare sulle assunzioni del personale e sulle modalità di entrata e uscita tra i vari gradi.
Per questa motivazione, non ci focalizzeremo molto su questo ultimo punto storico, ma cerchiamo di capire in cosa, la nostra scuola può vantarsi di avere un primato e su cosa invece no.
Il bello dell’andar a scuola
Ora più che mai, in questa situazione di emergenza sanitaria, avvertiamo i più estremi problemi che la nostra istruzione ci pone.
Ciononostante, il metodo di studio italiano è (sia nel livello scolastico che in quello universitario) riconosciuto come uno dei più validi e pretenziosi al mondo, superiore (in determinati indirizzi) persino al prestigio francese e statunitense, spesso ambiti o auspicati.
La vera differenza, non risiede tanto poi alla fine, nella strutturazione dei programmi didattici, quanto, nel punto di pretesa che essi chiedono allo studente: la nostra istruzione, ormai unica nel suo genere, non pone le sue basi nella “pratica” cioè nello studiare lo stretto ed immediato approccio alle discipline, quanto, al contrario (e questa è per pura tradizione), sulle loro origini e sulle loro capacità di “aiuto” nella vita.
Ne sono piena e concreta dimostrazione i Licei (sempre più abbandonati a sé stessi e non scelti in favore degli istituti professionali, con tutt’altra impostazione), che, con il loro sapere millenario, non formano il singolo dal punto di vista pratico, introducendolo ad un impiego o ad una immediata ricerca di lavoro, ma al contrario, attraverso il poi successivo percorso universitario, lo addestrano da un punto di vista mentale, garantendogli una base culturale e critica, indispensabile e universale, direi, più che mai, in tempi così culturalmente cretti e chiusi.
Solo dopo, sviluppate le dovute capacità analitiche, avviene l’introduzione al lavoro.
Il motivo della loro scomparsa (non solo in Italia, ma proprio anche a livello internazionale, basti pensare alla totale inesistenza del Liceo Classico oltrepassate le Alpi) è dovuto ad un fattore culturale che vedremo fra poco.
Il vero vanto sta quindi nel modus operandi delle nostre scuole, che vedono nel sistema pubblico (perlomeno fino alle università, esse escluse), il miglior mezzo per diventare “cittadino” a senso pieno.
Alta formazione, prestigio, rigore e manovre burocratiche sempre più efficienti che riducono il numero di insegnanti adepti, migliorandone (quasi sempre) la qualità fanno di noi elemento di “invidia” nel mondo.
Il brutto dell’andar a scuola
Eppure, non ci si smentisce mai, ancora una volta tutti i nostri punti di forza si perdono sotto una lista infinita di disagi continui.
Proprio per colpa di quel sistema pubblico (che fortunatamente esiste), i docenti sono assunti “no limits”, a vita, e questo fa della nostra scuola -nella stragrande maggioranza dei casi- un covo di insegnanti anziani (che magari hanno di gran lunga superato le soglie massime di anzianità della pensione) e che si ostinano a tenere stretto il “posto fisso”, facendo marcire l’istruzione e rubando letteralmente, il posto a milioni di ragazzi neolaureati e pieni di titoli (molto più validi quindi delle old generations, spesso persino poco istruiti).
Potrei andare oltre parlandovi dei quasi assenti fondi che ci vengono dal Ministero per recuperare qualche edificio scolastico in distruzione dopo anni di incurie, o agli infiniti tempi di sostituzione tra gli insegnanti e i supplenti (quasi mancassero), agli stipendi irrisori di chi lavora nel settore, ai soliti dibattiti culturali.
E il Covid-19 in tutto questo?
Come prima grande conseguenza immediata, la pandemia ha subito fatto emergere (qui ma anche in tanti altri settori lavorativi come quello sanitario) tutti i problemi, che però da anni in un modo o nell’altro venivano bypassati.
Primo fra tutti, la morfologia degli edifici che, in una situazione medica d’urgenza pandemica, deve esser come minimo rivisitata, come minimo.
Le misure adottate mostrano come, ancora una volta, la questione “scuole sicure” (che vede una scuola su 10 realmente a norma) sarà accantonata, stavolta sotto il dibattito sulla “buona didattica” da adottare.
In presenza o a casa? Questo è il dilemma “shakespeariano”, che tanto assale le bocche dei grandi demagoghi da un anno a questa parte.
Non è questo il momento per le delucidazioni, ne parleremo sicuramente più avanti, certo è che la vera problematica sembra, non tanto l’ adottare misure economiche per rivedere l’assetto dei nostri edifici (pandemia o no), quanto, al contrario, fare inutili dissertazioni su quale pedagogia scolastica sia la più adatta per il nostro pubblico studentesco.
Dei fondi sono giunti, certo, di pari passo con un numero di assunzioni di nuove leve elevatissimo, ma insufficienti (le risorse) per soddisfare una richiesta edilizia così ampia, e così le nostre scuole, le hanno investite in strutture di ultima generazione per la DAD (didattica a distanza).
In alcuni istituti, questi investimenti non sono neanche stati effettuati e i materiali non sono mai giunti, come non sono arrivati i tanto richiesti “bonus strumenti”, per dare strutture audiovisive alle famiglie economicamente in difficoltà, e la domanda ancora una volta è, risolviamo lo spreco tagliando e dando fondi ad enti che poi li usano per altri scopi?
È questo, il metodo realmente efficace?
Ci lasciamo oggi con una bella frase di Nelson Mandela che una volta disse:
“L’istruzione è l’arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo”
E noi, oggi, siamo in grado di adempiere a questa grande massima?
Noël De La Vega.