Liberté, Egalité, Fraternité. La filologia è esercizio di democrazia

Nelle ultime due settimane, sui fatti di Parigi se ne sono sentite davvero tante. Troppe. Era, del resto, inevitabile. Si è parlato di una guerra fra civiltà che starebbe opponendo sullo scacchiere internazionale due armate nemiche, si è ipotizzata l’esistenza di cellule terroristiche irrelate, si è paragonata la strage al numero 10 di Rue de Nicolas-Appert all’attentato dell’11 settembre:  un attacco al cuore dell’occidente, il tragico punto di non ritorno che ha sancito la frattura fra  il “Bene” le cui incarnazioni terrene sono le democrazie occidentali, liberali, laiche e tolleranti  e il “Male” musulmano, fondamentalista, retrogrado. E ancora, si è discusso del califfato, di libertà di satira e di diritto all’indignazione; si sono lanciati appelli accorati e campagne di solidarietà globali, sono state organizzate manifestazioni, contromanifestazioni e contro-contromanifestazioni; giornalisti, opinionisti, intellettuali, disegnatori, politici, comici, scrittori, tutti, con una matita in una mano e un tablet nell’altra, hanno detto la loro: jesuischarlie, (e c’è chi già scommette sulla futura brandizzazione dell’hashtag), jenesuispascharlie, jesuisahmed, fino all’oltraggioso jesuischarliecoulibaly. E poi c’è Houellebecq con il suo ultimo controverso romanzo (uscito per Gallimard proprio il giorno della strage e in Italia per Bompiani lo scorso 15 gennaio) che profetizza, in un futuro non troppo lontano, la resa incondizionata della Francia al fondamentalismo islamico. E c’è chi, dal Front National, inneggiando con ritrovato vigore alla libertà di espressione, si sfrega, forse, le mani.

Insomma, tra  pericolose approssimazioni concettuali, grossolani errori di metodo, e certa ipocrisia buontempona,  le analisi lucide e serie sulla questione risultano essere davvero poche. E così, annullandosi nel pulviscolo dell’informazione mediatica, rimane soltanto un rumore di fondo, vagamente irritante.

Ieri, presso l’Auditorium del Collegio Santa Chiara, si è tenuto l’ incontro “Le  parole e i simboli: riflettendo sui tragici fatti di Parigi e sulla libertà di espressione” al quale sono intervenuti i docenti Lenzerini, Flores d’Arcais, Bettini, Lancioni e Boldrini e i vignettisti Sergio Staino ed Emilio Giannelli. Un incontro privo dei toni retorici, apologetici e apocalittici di questi giorni, un dibattito pubblico in cui si è cercato di problematizzare le questioni relative alle libertà fondamentali, all’uguaglianza fra i cittadini, ai meccanismi che regolano l’inclusione all’interno della società, rinfocolando un legame che rende fratelli, parte di un tutto. Liberté, egalité, fraternité, appunto. E proprio da questa triade di parole, grido libertario e democratico per eccellenza, si è deciso di partire: il metodo di analisi e di riflessione, segue un approccio che ha del rigore filologico e semiotico caro alla scuola bettiniana, forse l’unico criterio possibile per districarsi nel coacervo quotidiano di termini inappropriati e abusati. Ripartire dalle parole, dal loro significato originale, per capire come, attraverso gli inevitabili processi culturali e politici di risemantizzazione, sia cambiata la loro accezione nel tempo, seguendo percorsi e derive impreviste, talvolta fuorvianti. E’ solo storicizzandole, contestualizzandole e analizzandole che le parole si fanno strumento di critica esse stesse e siano in grado, come in questo caso, di smascherare le ipocrisie concettuali dietro cui si trincera questo nostro Occidente: la disciplina filologica non è esercizio di stile, ostico e improduttivo,  ma rigoroso metodo d’indagine e strumento critico.

Il filo che lega tutti gli interventi, (soprattutto quelli relativi alla prima parte dell’incontro, cioè le relazioni di Lenzerini, Flores d’Arcais e Bettini che si sono occupati rispettivamente di “libertà”, “uguaglianza” e “fraternità”) è la persistenza di un’ambiguità di fondo insita in questi termini che li ha resi, e tuttora li rende, duttili, plasmabili, a tratti pericolosi, considerati nel loro valore assoluto e privo di criticità: la totale assenza di problematicità ha progressivamente svuotato di senso queste parole, facendo di esse inutili feticci e l’interpretazione tout court le ha rese simulacri lontani dalla realtà.

Un esempio su tutti è relativo al termine che, forse, è il più problematico: fraternité. Comparso nella Costituzione Francese solo a partire dal 1848 (quando liberté e egalité già vi figuravano)  implica una relazione, una parentela, un legame stretto; essere fratres, anche declinato in senso metaforico, vuol dire essere legati da un vincolo di appartenenza (ad una famiglia, ad una stessa comunità religiosa, ad un gruppo politico, o in generale alla specie umana) e determina dunque sempre un sentimento  identitario di inclusione che, per contro, esclude chi non è parte di quel qualcosa . Da un punto di vista strettamente linguistico-filologico (e anche antropologico, negli sviluppi che il termine ha avuto nel tempo a partire soprattutto dal Cristianesimo) i fratelli sono i nostri simili, il nostro prossimo (qui ancora una volta, inteso etimologicamente, come “vicino”): la pericolosità dell’ambiguità della parola fraternité  risiede nel fatto che questi rapporti di inclusione ed esclusione, anche dopo le conquiste illuministe, hanno stabilito differenze e marginalizzato in base al principio assoluto di identità e sentimento di appartenenza. Attualmente la comunità musulmana francese conta circa 5 milioni di persone. Cosa significa essere realmente “fratelli” in Francia oggi? La fratellanza dovrebbe essere sancita, nelle sedicenti democrazie occidentali libere, laiche e tolleranti, dall’integrazione piena e paritaria: fratelli non solo in quanto cattolici, protestanti, musulmani o ebrei, ma anche e sopratutto in quanto cittadini, considerati liberi e uguali fra loro dallo Stato e dalla società. Facile a dirsi, ma questa è la sfida della Francia e dell’Occidente: la necessità di portare a compimento l’annoso processo di secolarizzazione, senza tuttavia confinare ai margini le differenze, trasformando i valori libertari ed egualitari in principi fattuali.

E la satira? Si può essere liberi di irridere i potenti, le religioni, le istituzioni? Esistono dei limiti? Secondo Staino e Giannelli sì: neanche la satira, con la sua irriverenza dissacrante può sottrarsi all’apertura della riflessione critica. Essa infatti pur essendo libera, non rappresenta una zona franca perché  “il vignettista ha il dovere di offendere, ma il fine deve essere legittimo”: ribadendo il valore destabilizzante e destrutturante del riso, i due vignettisti ne rivendicano l’eticità. A parlare dell’aspetto etico della satira è proprio Sergio Staino, per di più amico trentennale di quello stesso Wolinski trucidato insieme ai colleghi nella redazione di Charlie Hebdo. Parla con candore, con onestà intellettuale, confessa di non amare particolarmente il tipo di satira del giornale parigino. Mentre parla scorrono sullo schermo alle sue spalle le vignette da lui disegnate in questi giorni tragici: la bocca si serra in un riso amaro ma necessario.

D’altra parte, chiosa l’amico Giannelli, il ruolo del vignettista è non avere paura.

 

Qui trovate il bell’articolo di approfondimento sui fatti di Parigi a cura di Alice Masoni.

 

Chiara Licata

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