Di solito si è abituati a sentire titoli importanti e conosciuti, più o meno, su scala universale: noi stessi siamo passati attraverso puntate come Assassin’s Creed o Call of Duty, entrambe saghe che, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha sentito nominare o visto su banner pubblicitari. Per la nuova puntata di Insert Coin, il settimanale appuntamento videoludico targato uRadio (come, non lo conoscete? E cosa aspettate?!), il caro Giacomo Piciollo mi ha proposto di dare un’occhiata a una serie di giochi che non avevo mai sentito, ma che ho amato esplorare e scoprire, per poter infine proporre l’articolo di oggi (un grazie, quindi, va prima di tutto a te, che mi hai permesso di scoprire questa piccola opera!). I giochi in questione sono prodotti da Thatgamecompany e sono rispettivamente flOw, Flower e Journey. Quello che mi ha colpito di più è proprio l’ultimo, del quale cercherò di spiegare le caratteristiche più emozionanti, introducendovi alla trama del gioco.
Il gioco si apre con una spoglia vista sul deserto. Il protagonista è una semplice figura incappucciata che si sveglia tra le caldi sabbie delle dune, sperduto, senza alcuna informazione o punto di riferimento. L’unica cosa che si intravede, in lontananza, è una gigantesca e luminosa Montagna – destinazione finale dell’intero gioco, al quale il giocatore dovrà arrivare attraverso varie sessioni di cammino solitario. Non vengono fornite spiegazioni, niente scritte, niente chat, niente indicazioni. Al pari dell’omino arancione con il cappuccio, il player è sperduto in una realtà che non conosce, una realtà che non gli appartiene, ma della quale sa di fare ormai parte. Una realtà che deve scoprire a poco a poco, sfruttando la propria curiosità e la magia dell’intero setting del videogame.
Nel corso del suo lungo viaggio, il protagonista scoprirà a poco a poco informazioni sull’intera trama del gioco: misteriose figure bianche, resti di antiche civiltà ormai sepolte dalle sabbie, strani organismi e, per ultime ma non meno importanti, altre creature costituite dalla stessa stoffa che copre il protagonista. Queste creature hanno movimenti e sembianze marine, alcune volte somiglianti a meduse, che hanno spesso e volentieri il potere di aiutare il solitario viaggiatore. Il lato magico di Journey è la musica che accompagna il player lungo il percorso, reso particolare dalle uniche due azioni che la figura incappucciata può fare: cantare e volare. Il canto è l’unico modo possibile per comunicare o interagire con l’ambiente circostante, come svelare glifi nascosti, attivare meccanismi, trovare altri pezzi di stoffa (come la sciarpa del viaggiatore), chiamare a sé creature che si possono trovare sul tragitto.
La sciarpa è il risultato dell’interazione con nomi o lettere dei glifi, segni di un’antica civiltà ormai scomparsa: i ricami presenti su di essa si illumineranno quando la carica di magia avrà raggiunto l’apice del suo potere, permettendo al giocatore di volare per alcuni tratti o scoprire meccanismi nascosti. La sciarpa si allunga sempre di più a mano a mano che si accumulano ricami luminosi e pezzi di stoffa, tuttavia, se eccessivamente usata, può correre anche il rischio di lacerarsi.
Il lato più emozionante del gioco forse è il multiplayer. In modalità multiplayer online è possibile incontrare un altro giocatore in tempo reale, in modo tale da poter proseguire la strada verso la Montagna in due. Il player non sa chi è l’altro giocatore, non sa nulla sulla sua identità, non ha modo di scrivergli un messaggio o interagire con lui. L’unico modo è cantare, usare cioè i ricami luminosi delle sciarpe, rese più potenti quando vicine l’una all’altra. Questo elemento permette di creare un sistema di collaborazione unico nel suo genere: mentre in altri giochi il multiplayer ha come scopo uccidere qualcuno, uccidersi tra giocatori stessi o cose simili, in Journey è tutto totalmente diverso. L’impossibilità di comunicare ma la necessità di voler percorrere la strada in compagnia, piuttosto che lasciarsi soffocare dalla calda solitudine del deserto, crea con l’altro sconosciuto un clima di silente amicizia. Un’amicizia che si forgia nelle note della musica e nella poesia dei colori, nei ricami che richiamano alla vita oggetti altrimenti morti e decaduti.
La grafica del gioco non è qualcosa che insegue la Firenze di Assassins’ Creed II, ma non ne ha bisogno. Journey mette in campo una grafica sufficiente, in alcuni tratti estremamente poetica e ricca di significati, che il giocatore stesso ha il compito di svelare e interpretare nella maniera che ritiene più opportuna. È un gioco che non necessita dello spoiler finale su come la storia vada a finire, probabilmente perché, per certi versi, Journey non ha una fine. È un viaggio, con tutti i significati ad esso associati: oltre ad essere il viaggio di quella buffa figura incappucciata, è il viaggio che ogni uno di noi percorre nella sua vita. Nell’atto di sviluppare il gioco, uno dei programmatori ha affermato che Journey può essere interpretato da ognuno di noi in maniera totalmente diversa e tutti possiamo leggere nelle sue note elementi della nostra stessa e personale realtà. È un gioco creato per emozionare, per suscitare forte interazione con il mondo della figura incappucciata e con il nostro: è un gioco che va provato, non descritto. Perché come gli sviluppatori non hanno voluto macchiare la sua magia con il mero uso del linguaggio, così non voglio fare io con il suo finale e con la singola esperienza che ognuno di noi può avere della Montagna.
Adria J. Necula