Gipi a Siena: reportage e videointervista

La rassegna di appuntamenti culturali ospitati dalla Biblioteca Comunale degli Intronati in occasione dei dieci anni di attività ci ha permesso di incontrare una figura di enorme rilevanza nel panorama culturale italiano. Infatti, stando alle stime del professor Matteo Stefanelli, se il fatturato del fumetto italiano in Italia nel 2015 ha raggiunto i 200 milioni di euro, una parte non irrilevante del merito spetta a Gianni Pacinotti, in arte GIPI.

Nelle classifiche di vendita del fumetto da libreria nel nostro paese l’autore pisano, che uRadio ha già avuto modo di incontrare nel corso degli ultimi due anni, è secondo solo a Zerocalcare, che per altro non manca mai di citarlo tra le sue figure di riferimento. Abbiamo scelto di introdurre il soggetto del nostro reportage con alcune cifre perché proprio lui, nel corso dell’incontro cui abbiamo assistito, ha avuto modo di dichiarare come l’unico metro del reale successo di un’opera o di un autore sia il numero di copie vendute: affermazione meno scontata di quanto si possa pensare se espressa in termini di confronto con il successo effimero dei social, dove i likes possono abbondare ma non costano nulla a chi li elargisce.

  • Foto di Fabiana Di Mattia

La conferenza di GIPI si è svolta ieri, 9 dicembre, nella Sala Storica della Biblioteca Comunale ed è stata introdotta dal direttore generale della Biblioteca Luciano Borghi e presentata dal fumettista e docente di Accademia del Fumetto Daniele Marotta. Punto di partenza per il dialogo con l’autore è stata la recente pubblicazione del romanzo grafico La terra dei figli, edito per Coconino Press.

Un’opera che cerca di superare e sublimare lo sguardo autobiografico di molte fortunatissime prove precedenti mirando ad una narrazione totalmente finzionale: un tentativo di interrompere quel “patto di affezione” con il lettore stipulato mettendo a nudo le proprie debolezze, idiosincrasie ed oscurità (La mia vita disegnata male, 2008), quelle della propria famiglia (S., 2006) o l’idea stessa di relazione dell’individuo con i propri antenati, il proprio presente e la possibilità di proiezione nel futuro (Unastoria, 2013). La sfida da affrontare era, a questo punto, riuscire a deviare il flusso empatico dei lettori – alcuni dei quali sono arrivati a tatuare sul proprio corpo le sue parole – dall’autore ai personaggi, raccontando l’altro da sé.

In conseguenza di questo cambio di prospettiva nella scelta dei contenuti è sorta anche l’esigenza di un ripensamento della forma in cui esprimerli, esplicatosi nel rifiuto di due cifre iconiche dello stile di GIPI come l’importante presenza delle didascalie e l’uso dell’acquerello, scelta i cui effetti sul processo creativo e sul risultato finale sono stati decisivi.
Il primo traguardo concreto, confessa l’autore, lo ha raggiunto con se stesso nel momento in cui ha realizzato di essere riuscito a non infrangere nessuna di queste regole autoimposte fissate in fase preliminare.
A livello dell’opera, poi, il cambiamento è radicale soprattutto nella gestione dei tempi narrativi e nel rapporto tra la quantità di informazioni date al lettore e il numero di tavole e vignette: per compensare l’assenza di una riga di didascalia si rende necessario offrire a chi legge intere sequenze di immagini, ottenendo una visualizzazione grafica a tratti più vicina alla narrazione dilatata di uno storyboard che allo stile tradizionale del graphic novel e di GIPI stesso. Un approccio che potrebbe anche spiazzare ma che ha il suo punto di forza nella libertà concessa al fruitore dell’opera, la cui griglia interpretativa non sarà condizionata dalle parole di una voce onnisciente e superiore al piano della storia, ma soltanto indirizzata dalle scelte “registiche” nella disposizione delle vignette, nella scelta e nel ritmo delle inquadrature. Non secondaria in questo senso anche, insieme alla rimozione dell’acquerello, l’adozione del bianco e nero per ottenere una sintesi grafica che aiutasse a focalizzare l’attenzione sulla storia.

Una storia post-apocalittica, ambientata in un futuro non troppo distante ma abbastanza lontano da aver dimenticato molte delle nostre coordinate sociali e culturali, il cui primo spunto proviene dalla visione del controverso documentario Gaia prodotto da Gianroberto Casaleggio, la cui visione ha suscitato in GIPI la curiosità di indossare i panni di qualcuno che dopo vent’anni trascorsi in un bunker sotterraneo ritornasse alla vita in superficie in un mondo ormai irriconoscibile.

Da questa prima intuizione è scaturita la storia di due fratelli senza nome, allevati dal padre vedovo e memore della civiltà antecedente all’avvenuta catastrofe.
Un genitore il cui atto d’amore definitivo consiste nel fare l’esatto contrario di quanto spesso avviene nell’avvicendarsi e nel confronto delle generazioni: anziché lasciarsi andare al classico rimbrotto di chi, superata una certa età, smette di comprendere il presente e rinfaccia ai propri figli la bellezza perduta di un passato inevitabilmente idealizzato, il protagonista de La terra dei figli fa di tutto per cancellare quell’epoca trascorsa a cui gli è toccato sopravvivere.
Se ambizione ultima di ogni genitore è quella di fornire alla propria prole gli strumenti per affrontare al meglio il mondo che dovranno abitare, questo personaggio non fa eccezione: la privazione del nome, dell’accesso alla scrittura e del lessico dei sentimenti imposta ai due ragazzi è la condizione necessaria per renderli adatti alla sopravvivenza nella Terra che dovrà appartenere loro.

Nel corso della presentazione sono poi emersi innumerevoli aspetti della visione artistica e del metodo di GIPI, alternando gustosi aneddoti ed opinioni personali a commenti e citazioni dell’ultimo lavoro (spesso costeggiando pericolosamente la soglia dello spoiler, rischio che risparmieremo ai nostri lettori, ndr).
Prima di lasciarvi alla videointervista realizzata dal sottoscritto insieme a Giuliana Ricozzi, ci preme evidenziare la totale riuscita dell’evento sotto tutti gli aspetti.
Il pubblico ha premiato l’artista con un’affluenza di massa in una Sala Storica ricolma ed è stato ricambiato con una mèsse di spunti di riflessione e di approfondimento.
Infatti, come dichiarato da GIPI stesso, la veste grafica de La Terra dei figli, con la sua copertina nera e senza illustrazione, priva di riferimenti editoriali e di note in seconda o quarta di copertina, mirava a richiamare la fisicità del diario privato del padre di cui si narra nell’opera.
Due libri, uno (immaginario) contenuto nell’altro (reale), con in comune un autore che vuole rendere migliori e più preparati ad affrontare la vita i suoi interlocutori ma separati dalle opposte modalità in cui la loro scrittura può salvare: il primo non dovrà mai essere aperto e decifrato, condannando all’oblio il suo contenuto, mentre l’altro si offre al lettore in tutta la chiarezza espositiva del nuovo GIPI, non didascalico e non più legato al colore.
La nostra fortuna è avere a disposizione, tra i due, quello di cui ci è concesso fruire.


Santo Cardella

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