Ieri 17 gennaio si è festeggiato la Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali organizzata dall’ Unione Nazionale delle Pro Loco.
Lo so cosa state pensando, ma no: non è solo un’altra giornata istituita ad hoc per giustificare ore interminabili di convegni in cui si pensa solo al buffet di mezza giornata.
I DIALETTI SONO IMPORTANTI! [originale e affatto abusata psuedo-citazione a Nanni Moretti]. Sì, va bene, sono importanti… ma perché?
Da un punto di vista prettamente linguistico i dialetti sono delle vere e proprie lingue. Hanno le loro regole fonetiche e sintattiche, hanno la loro storia, custodiscono un patrimonio culturale ricchissimo. E stanno morendo.
Ecco perché una giornata nazionale serve eccome. Per farvi percepire anche solo un minimo la varietà linguistica che si trova nella nostra scarpetta a punta ho fatto alcune domande a dei collaboratori e collaboratrici di uRadio sparpagliati da nord a sud.
Ecco l’intervista.
Formalità inziali: nome, città di provenienza e dialetto parlato
MB: Marina Bastiani, Siena, toscano (senese).
FF: Io sono Franco Ferrari e vengo da Ronciglione in provincia di Viterbo.
MT: Mattia, vengo da Verrone: un piccolo paesino in provincia di Biella, Piemonte – dove si parla, neanche a dirlo, piemontese.
MM: Buon salve! Io sono Marco, vengo da Gela (Sicilia) e, appunto, il dialetto che parlo è il siciliano (o meglio, il gelese).
Parli spesso in dialetto? Ne conosci e usi anche altri?
MB: Beh, per forza. Il toscano secondo me non è nemmeno considerabile un dialetto, ma un forte accento e modo di essere. Essendo così simile all’italiano spesso non ci accorgiamo nemmeno che stiamo parlando in modo scorretto (il famoso “si” impersonale utilizzato come sinonimo rafforzativo di noi, ad esempio “Noi si fa”). Avendo origini Tropeane da parte di mamma, riesco a capire bene il calabrese della zona, ma non ci provo nemmeno parlarlo anche se me lo hanno insegnato, viene fuori un mischiume strano!
FF: Nella mia zona si parla una grande varietà di dialetti Umbro-Laziali, alcuni simili al romanesco, altri al ternano ed altri ancora al toscano, nel mio paese in particolare parliamo un dialetto che può sembrare una fusione tra la parlata romana e quella umbra. Sì! Lo uso spesso, ma solo con la famiglia e gli amici più stretti.
MT: In realtà no: la mia é una famiglia di immigrati sia da parte paterna (veneti) sia da parte materna (dal Trentino con furore). Il dialetto parlato in casa é sempre stato un altro e a noi più giovani quasi nessuno si é mai rivolto in dialetto. Capisco (ma non parlo correntemente) quindi tutte e tre le lingue. In Piemonte poi l’uso del dialetto é minore rispetto alle altre regioni, anche del nord, proprio perché terra di immigrazione (pensate alla Fiat!): l’italiano é una lingua franca. Si parla in piemontese in ambienti o piccoli, talvolta elitari, quasi mai tra i giovani (suonerebbe quasi come un gesto trasgressivo rispetto alla normalità). Certe espressioni poi entrano nel linguaggio comune e ci si convince che siano perfettamente italiane: “fai che fare”, “non mi oso”, “solo più”, “hai un cicles?’ e così via.
MM: Certo! Perché penso che il dialetto faccia parte di me e aiuti a comprendere meglio la mia personalità. Infatti, man mano che stringo i rapporti tendo a far sì che sia il più comprensibile possibile per essere del tutto me. Ho bisogno di certe “uscite” dialettali, non posso farne a meno (rido). Dire che ne conosco altri è eccessivo, però mi piace spesso imitarli e scherzare sulle differenze. Boia, ad esempio, mi garba “ummonte” (sorrido).
Come pensi percepiscano la tua lingua locale coloro che non la parlano? Questa percezione influenza il tuo uso del dialetto?
MT: Secondo me il toscano è percepito come un dialetto simpatico, irriverente e facilmente imitabile, cosa non vera per chi non è nato qua. Secondo me no.
FF: Viene spesso definita come una variante buffa del romano dai forestieri, ma mano a mano che l’ascoltano ne colgono le grandi differenze, sia grammaticali che fonetiche! Evito generalmente di usarlo con persone conosciute da poco, ma non mi tiro indietro dal farlo sentire a chi è interessato!
MB: Credo di potermi includere tra le persone che la parlano pochissimo, per cui posso dire che mi sembra o un dialetto ottimo per una cospirazione carbonara oppure per una madamin-a (signora) che in negozio si compera la carne per il vitel tonné. Pare che somigli molto al francese ma io collego l’utilizzo del dialetto anche ai marghé (i pastori) e questo mi allontana mentalmente dagli Champs-Élysées.
MM: Ovviamente, è chiaro che il mio modo di parlare sia influenzato da come possono percepirlo le persone di un posto diverso; sono soprattutto influenzato dal fatto che posso non essere capito. Tutto va contestualizzato. Però, come ho detto prima, cerco di introdurlo pian piano, permettendo a chi mi ascolta di comprendere sempre di più il senso di ciò che voglio dire, anche se non si riesce a tradurlo letteralmente.
Dicci una parola, un modo di dire o un proverbio della tua parlata che ti piacciono particolarmente e che secondo te non ha un equivalente in italiano standard.
MT: il primo modo di dire che mi viene in mente è: “Sa dì d’andà?” che equivarrebbe letteralmente a “si dice di andare?”, però un equivalente ce l’ha.
FF: Gioco due carte, una parola usata solo nel mio dialetto ed un proverbio tipico! “Occe!” è una esclamazione intraducibile che denota un forte stupore o incredulità in quello che ci viene proferito da un interlocutore, il proverbio è invece “Si pure a o’ somaro ‘lle metti a cravatta, sempre somaro edè” che indica come tentativi fatti per mascherare il proprio status o aspetto siano destinati a fallire a causa dell’evidenza.
MB: Scelgo un’espressione, forse famosa, che racchiude in sé la mentalità dei torinesi e dei piemontesi in generale: bògia nen! Letteralmente significa “non ti agitare” (anche nel senso di “non fare una scenata”) ma non si riferisce alla calma quanto proprio ad un mood risoluto nell’affrontare le situazioni. I piemontesi sono detti “bogianen” perché pare che, durante una guerra d’Indipendenza italiana, un generale al quale era stato chiesto di battere in ritirata abbia replicato serafico “Noiautri da sí i bogiuma nen”, noi da qua non ci spostiamo. Può crollare il mondo ma il piemontese doc, con il proverbiale sorriso falso e cortese, non cederà di un millimetro, senza scomporsi.
MM: “Chiummo” (rido), chiummo è bellissimo, una bellissima parola. Il significato letterale, preso così, non vuol dire praticamente niente: “chiummo” in italiano vuol dire “piombo”; il piombo è pesante, e “chiummo” quindi è usato per dare più forza alle esclamazioni. Potrebbe essere tradotto nell’esclamazione “Top!”. Es.: “Marco come sto con questo vestito?” – “Chiummo!” – “Oh, hai visto le mie scarpe nuove?” -“Chiummo!”(voltandomi verso le scarpe, se presenti in quel dato momento).
C’è invece una poesia o una canzone dialettale che ami particolarmente?
MT: L’inno del corpo sciolto vale? A parte gli scherzi, “la verbena” inno del popolo senese. Della Calabria, invece, cito Micu u’ pulici che è un comico e stornatore. Ovviamente non possono mancare le tarantelle, tipo “Bella fijola” (mi pare si chiamasse così).
FF: Ne esistono varie per lo più sconce e legate alle festività carnevalesche, la più amata da me ed il mio gruppo di amici è però “Che magnarà la sposa” canzone molto lunga e divisa in dodici notti in cui una neosposa mangia sempre più cibo e che viene cantata mentre si beve un sorso di alcool in più per ogni nuova notte, con un cantante principale e la compagnia che canta il coro. La canzone inizia così “Che magnarà la sposa? In su la prima sera? In su la prima sera….. mezzo piccioncì” ed il ritmo aumenta per ogni nuova pietanza e nuova sera.
MB: Come vi dicevo, la nostra dimestichezza con il piemontese é tale da necessitare di corsi a scuola: giuro, alla materna una simpatica signora veniva ad insegnarci le canzoni in piemontese e i modi di dire. Qui un po’ tutti conoscono le canzoni delle mondine, cioè le donne che erano pagate per togliere le erbacce dalle risaie e che vivevano in ammollo, poverette. Per svagarsi, canticchiavano e la canzoncina più carina invita il proprietario a retribuirle: “sciur padrun da li beli braghe bianche, fora le palanche!”.
MM: Non è una canzone gelese, ma della cultura musicale siciliana amo la versione cantata del motivetto de “Il Padrino”: <brucia la luna in cielu ed iu bruciu d’amuri> (sorrido mentre canto). Bellissima!
Secondo te che senso ha oggi la preservazione delle realtà linguistiche locali, visto che la contemporaneità ci spinge sempre più a revisionare i concetti di appartenenza e globalità?
MT: Preservare una lingua o una tradizione del territorio serve a mantenere viva la memoria delle persone che hanno creato ciò che vediamo oggi, è un modo per far rivivere quelle migliaia di vite che ci hanno preceduto e che in fondo ci hanno formato per quello che siamo.
FF: Sarò sincero amo il mio dialetto e per me rappresenta le mie origini, la mia infanzia e l’adolescenza, però credo che debba rimanere questo: va messo da parte per la vita di tutti i giorni, ma può essere rispolverato con la famiglia e gli amici più cari, ma va soppresso nell’ambito lavorativo e professionale.
MB: Bella domanda: io stesso conosco decisamente meglio l’inglese e il francese del piemontese. Forse i dialetti tenderanno a sparire ma é bello conservare qualche parola o espressione carica di storia: é cultura tradizionale in senso stretto, dopotutto.
MM: Domandone! Rispondo, per divincolarmi, semplicemente che penso che il senso stia nel senso d’appartenenza (scusate il gioco di parole) di ognuno; siamo forme di vita intelligenti e possiamo interagire col mondo, mantenendo alcuni capisaldi della nostra cultura.
Ci salutiamo con un racconto di un aneddoto o un ricordo particolare legato all’uso del tuo dialetto.
MT: Direi di finire con il classico “coha hola hon la hannuccia horta horta e holorata” must delle vacanze estive di ogni toscano. Sempre, ovunque. Ciau!
FF: Ho tanti ricordi legati al dialetto ma i più cari sono legati ai miei nonni, molto più fluenti di me nel nostro dialetto, che arrivavano a volte ad essere incomprensibili, ricordo che una volta giocando con delle trottole venni rimproverato da nonno che mi disse “toji i cozzocoli, che dovimo uscì” ovviamente non capii al volo cosa fossero i cozzocoli da lui nominati fino a che lui scocciato non prese le trottole e me le tolse. Tutt’ora non conosco tutte le parole del mio dialetto, la mia parlata rimane un fusione tra il nostro accento e l’Italiano standard!
MB: Potrei raccontare una delle innumerevoli volte che non ho assolutamente capito cosa mi stessero dicendo ma ho riso lo stesso e risposto con una frase di circostanza. Giusto per spigare il rapporto che i miei coetanei hanno con il piemontese (perlomeno quelli che conosco), la scorsa settimana insieme ad una mia amica abbiamo cercato una frase dialettale passepartout perché non sa cosa rispondere ai “valit” che la vedono a cavallo e le dicono qualcosa in dialetto. Ignoranti tutti e due, abbiamo trovato un’espressione che potesse andare bene in ogni circostanza perché lei non capisce proprio cosa le dicano. la scelta é ricaduta su “Can c’à l’é ura l’é ura!”, cioé quando arriva quel momento (di solito la morte) é ora ma si adatta per più situazioni (“non hai paura?” “Da quando cavalchi?” “Che ora é?”): crediamo che possa confondere abbastanza chi le rivolge la parola!
MM: Un racconto ce l’ho ed è anche un bel ricordo. Ero al primo anno di università, due anni fa, in uno dei giorni di lezione di novembre (quindi conoscevo tutti da poco). Mentre, io con i colleghi, eravamo in ascensore, una ragazza esce pensando di essere di troppo (motivo capienza massima dell’ascensore) e un mio caro collega, Omar, nell’intento di farla benevolmente rientrare con noi, esclama <MA UNNA (=dove) VAI?!!>. Questa cosa mi ha fatto divertire ed emozionare (sorrido con fierezza). Grazie, vi voglio bene. Ciao.
Spero che questa intervista sia stata un’occasione per farvi pensare un po’ di più al vostro dialetto e a quanto possa essere bello farlo conoscere!
Alice Fusai