Il Fiabisfero, tappa 12: finale

Amici del Fiabisfero, bentrovati a quella che, come avevamo annunciato la volta scorsa, è l’ultima tappa del nostro incredibile viaggio nel mondo delle fiabe. Abbiamo “visitato” e imparato a conoscere, attraverso il potere delle parole e delle tradizioni orali, un sacco di paesi diversi, e la cosa che più mi rende orgoglioso è sapere che moltissimi tra voi mi hanno seguito fino a questo punto. È brutto dover condensare tutta la mia gratitudine in un semplice grazie, però sappiate che è sincero.

La scelta più ardua per concludere in maniera degna quest’avventura è stata la fiaba da proporvi. Alla fine, dato che non sapevo decidermi, ho pensato di fare qualcosa di diverso e proporre un mio contributo, in modo da conferire alla rubrica un tocco più personale. Si intitola “Ulbo il Multifaccia” ed è una fiaba piuttosto lunga, scritta qualche tempo fa, in cui affronto una tematica che mi è sempre stata molto a cuore: la ricerca di se stessi e del proprio vero io. Vorrei salutarvi così, nella speranza che anche voi possiate diventare ciò che davvero volete essere.
A presto, ragazzi. Fate buon viaggio.

* * *

Ulbo il Multifaccia

Gustave Caillebotte (1848-1894) – Scogliera a Trouville

In una regione sconosciuta e distante, così lontana che nessun geografo, in tutta la storia dell’umanità, l’ha mai rappresentata nelle mappe (quindi, di fatto, si può dire che esiste solo nella nostra immaginazione), viveva un giovane Multifaccia di nome Ulbo. Non aveva uno specifico aspetto fisico, ma ogni tanto, a seconda di come cambiavano i colori del cielo nell’arco della giornata, passava da una forma all’altra: ad esempio, poteva svegliarsi con le sembianze di un ombrello, nelle mattine di pioggia, e poi diventare qualsiasi altra cosa – un martello, un furetto, una foglia di platano – anche cinque minuti dopo, se il sole tornava ad affacciarsi tra le nuvole. Nessuno, neppure lui stesso, avrebbe saputo dire se mai avesse avuto una “forma originaria”, cioè una o più caratteristiche che lo rendessero unico nel suo genere, cosa che è propria di tutti gli esseri viventi.

I Multifaccia come Ulbo non avevano una casa propria ma, potendo assumere tanti aspetti differenti, vivevano pressoché ovunque: nei parchi o nelle spiagge sotto forma di cicale, nelle profondità dell’oceano quando erano pesci, alghe o piccoli organismi, ma anche, per esempio, in stretti e umidi portaposate, nel caso in cui fossero diventati vecchie forchette dal manico intarsiato – di quelle che affollano le credenze delle nostre nonne, per intenderci. Una sera d’estate Ulbo si trovava in un piccolo paese affacciato sul mare, più precisamente nella casa di un lampionaio, il quale aveva lasciato sul tavolo della cucina una scatola di fiammiferi nuova. All’interno erano ordinatamente allineate, una sopra l’altra, due file di cerini, silenziosi e attenti, accarezzati dalla luce della luna che attraversava la finestra. Uno di quei fiammiferi era Ulbo. Accanto a lui, una bella fiammifera dalla testa rossa gli rivolse improvvisamente la parola:
– Che ve ne pare, caro amico? Non si sta proprio bene stasera?
– Oh…! Dite a me, signorina? – rispose Ulbo in un sussulto. A forza di guardare la luna si era come lasciato rapire dalla sua figura, così luminosa, perfettamente circolare. Com’è limpido il cielo stanotte, pensò tra sé e sé.
– Certo che dico a voi! Gli altri non hanno voluto rivolgermi parola. Il problema, caro signore, è che i nostri colleghi sono tutti così spocchiosi… pensano solo a chi, tra loro, avrà per primo l’onore di essere acceso e di veder sorgere il fuoco sopra la sua testa. Non sarete mica anche voi come gli altri?
– Io? No, beh, io stavo guardando la luna. Avete visto com’è bella stasera?
– Oh, sì! Lei non deve preoccuparsi di cose come il fuoco, perché, quando fa giorno, se ne va semplicemente a dormire. Ma ditemi: qual è il vostro nome?

E così Ulbo e la piccola fiammifera trascorsero l’intera notte a conversare fra loro. Il Multifaccia si sentiva a suo agio in compagnia dell’amica, tanto che nessuno dei due si rese conto del sole che cominciava a sorgere, e che il cielo stava iniziando a cambiare colore. Allora Ulbo, come sempre, subì l’ennesima trasformazione: ecco che, da esile bastoncino di legno, era diventato il grosso gatto persiano di casa, con i denti gialli e i baffi perennemente stropicciati, perché aveva l’abitudine di addormentarsi sulle ginocchia del padrone, il lampionaio, con il muso premuto contro una delle sue gambe. L’imponente micio, non appena fu investito dal primo raggio dell’alba, si stiracchiò le zampe e passeggiò attorno al tavolo della cucina per sgranchirsi le giunture. Ulbo, che, nonostante i continui cambiamenti di aspetto, conservava il ricordo di tutto quel che gli era accaduto nelle sue forme precedenti, desiderava parlare ancora un po’ con la piccola fiammifera, perché insieme a lei aveva trascorso una notte piacevole e, in cuor suo, confidava che potessero diventare amici. Si avvicinò quindi alla scatola di cerini illuminata dal sole del mattino.
– Salute! Il sole è sorto: avete visto che bell’arancione che ha? – disse Ulbo con uno squillante miagolio.
– Vattene via, tu! Non do confidenza, io, alle bestiacce come te! – rispose la fiammifera in tono sdegnato. Con che coraggio quel gatto sgraziato e ignorante osava rivolgerle la parola?
Ulbo non si aspettava certo una simile reazione da parte sua, però poi si rese conto che, avendo cambiato forma, l’amica credeva di star parlando non con la solita persona, ma con un perfetto estraneo. Allora le spiegò, per filo e per segno, la sua condizione di Multifaccia, e i continui mutamenti di aspetto nel corso della giornata, ogni volta che il cielo si tingeva di una nuova livrea. – Ma che stranezza… – commentò la fiammifera, che fino a quel momento era rimasta in silenzio. – Una storia del genere non l’avevo mai sentita.
– Non temete, dunque, cara signorina: di fronte a voi avete sempre il vostro amico Ulbo, solo che adesso è diventato un gatto.
– Oh, beh…! Mio caro, capirete che non posso fidarmi di voi – fece notare la fiammifera, con un tono di voce così freddo che un brivido corse lungo la schiena pelosa del micio. Dato che quest’ultimo aveva smesso di parlare, lei continuò: – Insomma… non vorrei offendervi, ma… suvvia, mettetevi nei miei panni: non posso stringere una relazione con una “cosa” che cambia continuamente aspetto. È come se mi trovassi di fronte, ogni volta, un individuo diverso! E se vi capitasse di trasformarvi in una pozzanghera, o nella pioggia? Quelli della mia specie sono cagionevoli di salute, temono l’acqua più di ogni altra cosa! No, no, non si può fare; non posso permettermi di bagnare la mia regale testa color rubino. Andate via, su; non sta bene che una signorina come me si intrattenga con un gatto.
Il povero Ulbo, rimasto senza fiato e senza parole, abbassò la coda e, trascinandola lungo le assi del pavimento, con gli occhi pesanti e i baffi stropicciati più del solito uscì dalla cucina. Il lampionaio dormiva ancora. Sdraiato sul vecchio tappeto persiano di fronte alla finestra del soggiorno, il Multifaccia dall’aspetto felino emetteva miagolii di pianto, pensando alla fiammifera che, per colpa della sua natura che cambiava in continuazione, aveva deciso di non volergli più essere amica. Tanta era la tristezza che gli riempiva il cuore da non rendersi conto che, nel frattempo, il cielo era diventato grigio piombo e carico di nuvole: allora Ulbo si trasformò in un granello di polvere. Il suo corpo e il suo peso, ora, erano inconsistenti, e bastò un semplice spiffero a sospingerlo fuori dalla finestra, attraverso una fessura del legno. Sorvolò il mare, i tetti del paese, i campi di malva e di lavanda che si estendevano a perdita d’occhio lungo l’orizzonte. Piovve per qualche tempo, poi un pallido sole guadagnò uno stretto passaggio tra le nuvole pesanti, quindi Ulbo divenne una rana. Una rana un po’ triste. Ingoiò un paio di moscerini per placare lo stomaco che cominciava a brontolare, poi decise di andare a trovare il suo amico Tom, il tiglio che, da circa duecento anni, aveva messo radici vicino allo stagno.

Piet Mondrian (1872-1944) – L’albero rosso

– Salute, Ulbo! Qual buon vento ti porta da queste parti? – lo salutò benevolmente Tom, facendo ondeggiare il suo ramo più grande e carico di foglie color verde smeraldo.
– Ciao, Tom – gracidò Ulbo, e subitò scoppiò a piangere.
– Cosa succede, amico? Che c’è che non va? – domandò il vecchio albero. Allora il Multifaccia si mise a raccontargli, per filo e per segno, la sua disavventura, interrompendosi di tanto in tanto per riempire d’aria il suo gozzo verdognolo e tirar fuori la lingua, catturando qualche insetto di passaggio.
– Oh, Ulbo caro, mi dispiace molto…
– Tom, sapessi quanto è penosa questa mia condizione di Multifaccia! A forza di cambiare forma finirà che non mi riconoscerò più nemmeno io. Vedi, quella fiammifera… credo di essermene innamorato. È molto educata, e poi ha una testa così graziosa! Lei non vuole ammetterlo, ma sotto sotto spera di avere il privilegio di venire accesa per prima. Forse il vecchio lampionaio si accorgerà della sua bellezza, e la accontenterà. Oh, come vorrei che lo facesse, amico mio! Quanto vorrei tornare a starle accanto!
– Ti pesa così tanto essere un Multifaccia, Ulbo? – domandò Tom di punto in bianco.
– Più di qualsiasi altra cosa al mondo – rispose la ranocchia, masticando un ragno tra le lacrime.
– Poco lontano da qui, vicino al ponte di pietra, abita una vecchia strega. Si dice che abbia aiutato molti della tua specie ad assumere una forma soltanto, e per sempre. Perché non vai da lei? Potrebbe decidere di darti una mano – disse l’albero, a cui lo scirocco insolente spettinava tutte le foglie.
– Oh, Tom! Dici sul serio? Davvero esiste qualcuno che può togliermi questa maledizione? – Divenuto improvvisamente raggiante, Ulbo fece un balzo e, con le sue zampe appiccicose, abbracciò la corteccia dell’amico, che lo salutò facendo cadere una foglia sopra la sua testa. Nel frattempo la giornata si avviava verso il tramonto, il cielo era una splendida tavolozza di colori caldi con qualche residuo di temporale ormai lontano: Ulbo divenne una magnifica volpe e, a grandi falcate, raggiunse il ponte di pietra.

Balthasar Denner (1685-1749) – Ritratto di donna anziana

Una baracca di legno sorgeva a poca distanza, ben nascosta da una siepe di alloro alta quasi due metri. Ulbo la volpe raschiò con discrezione la porta. Qualcosa, all’interno, produsse un rumore, poi fece scricchiolare il pavimento; infine la porta si aprì, rivelando la sagoma di una vecchina alta meno di un metro, dai lunghi, argentei capelli, e con un naso enorme che troneggiava in mezzo a un visetto tondo e rugoso. Aveva un paio di occhi grandi, brillanti, materni, che si posarono immediatamente sulla volpe. Dal canto suo, Ulbo sentì crescere un po’ di paura dentro di sé.
– Oh, che sorpresa, un bel giovanotto viene a far visita a questa vecchia sfaccendata! Avanti, accomodati – disse la strega, invitandolo a entrare. La casa era modestamente arredata; in un angolo, nell’unico stanzone di cui era composta, stava uno scaffale carico di bottigliette di vetro, alcune piene, altre vuote. Un po’ ovunque erano sparsi libri e ragnatele. Una scodella di minestra sputava fumo accanto a un bollitore, sopra un vecchio tavolo di cui i tarli dovevano essersi impadroniti da anni. La vecchia si sedette, puntò il naso sopra la sua cena, afferrò un cucchiaio e cominciò a mangiare. – Cosa ti porta da queste parti, cara volpe? In cosa ti posso aiutare?
– Vedete, signora, – ululò Ulbo – io non sono esattamente una volpe. Sono un Multifaccia, cambio forma ogniqualvolta in cielo si manifesta un nuovo colore. Vorrei diventare qualcosa di “definitivo”, mi capite?, e smettere di trasformarmi in continuazione. Mi hanno detto che voi siete in grado di aiutarmi… beh… è così? – Terminato il suo discorso, Ulbo si sentì fiero di essere riuscito ad arrivare fino in fondo, sostenendo lo sguardo, attento e profondo, della strega.
– Dunque per questo sei qui? Permettimi di farti una domanda – disse la strega, continuando tranquillamente a sorbire la sua zuppa. – Per quale motivo non vuoi trasformarti più?
– Perché, quando ero un fiammifero, mi sono innamorato di una splendida fanciulla, ma dopo essermi tramutato in un gatto lei non ha più voluto saperne di me. Vorrei tornare fiammifero e restare così, per poterci voler bene di nuovo come prima.
– Oh! – commentò la vecchia – Che bel proposito! Mi sembri proprio una brava volpe, o un bravo fiammifero, come preferisci, quindi ti aiuterò! – La strega impose le sue mani nodose sopra la testa di Ulbo, pronunciò una formula incomprensibile, poi annunciò trionfante: – Torna dalla tua amata e aspetta la mezzanotte: allora ti trasformerai in ciò che desideri essere, e non cambierai mai più aspetto. Corri! Non manca molto all’ora fatidica, e se dovessi diventare un fiammifero prima di aver raggiunto la meta sarebbe un guaio, perché nessuno potrebbe aiutarti!
Il cuore del Non-Più-Multifaccia traboccò dalla gioia. Scodinzolando, ringraziò la vecchia strega e corse via, in direzione del paese, mentre il cielo tratteneva a stento le ultime luci del tramonto prima di cedere il posto alla sera.
Raggiunse la casa del lampionaio sotto forma di foglio di carta, perché nel frattempo la luna era tornata a occupare il suo posto, in compagnia di uno sciame di stelle. Passò attraverso la porta di casa che il padrone aveva lasciato socchiusa, mentre era sul retro a mettere in ordine gli attrezzi da lavoro (anche stasera ho fatto il mio dovere, pensò, riponendo le torce e gli stoppini imbevuti d’olio, e asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte). Ulbo svolazzò in soggiorno, producendo il classico rumore che fa la carta quando viene mossa dal vento, e atterrò accanto alla scatola di fiammiferi, sul tavolo della cucina, proprio dove l’aveva lasciata la notte scorsa. Notò che all’appello non mancava nessuno dei suoi vecchi compagni. Come al solito, la sua amica spiccava tra gli altri per bellezza ed eleganza. Ulbo il foglio di carta era al colmo della gioia.

Claude Monet (1840-1926) – Il Parlamento di Londra al tramonto

Arrivò la mezzanotte, e con essa si avverò l’incantesimo della strega: Ulbo divenne un fiammifero, così, dopo aver tanto sofferto, si trovò di nuovo accanto a colei che amava.
– Siete tornato! – esclamò la fanciulla, incapace di trattenere lo stupore. – Che strano, credevo che non vi avrei più rivisto. Quanto durerete in questa forma? Un’altra notte, poi tornerete ad essere un gatto come ieri?
– Ebbene no, amica mia, questa volta non mi trasformerò più – rispose Ulbo il fiammifero al colmo dell’emozione. – Ora potremo volerci bene. Siete contenta?
– Oh! Che gioia! – gridò la fiammifera. – Vi abbraccerei se non fossi attaccata a questa base di legno, come del resto tutti noi. Siete tornato giusto in tempo per osservare la luna insieme a me. Guardate com’è bella, e quant’è regale, in mezzo a tutte quelle lune infinitamente più piccole! Mi fanno pena, cercano di assomigliare alla più grande, ma emettono una luce così debole in confronto…!
– Non sono lune quelle che vedete, amica mia, – sottolineò Ulbo, il Non-Più-Multifaccia – sono stelle, e vi sembrano più piccole e fioche semplicemente perché si trovano a grande distanza dalla vera luna; però credetemi, sono altrettanto belle! Nelle mie precedenti trasformazioni mi è capitato, un paio di volte, di essere una stella. – Non appena finì di parlare, guardando fuori dalla finestra della cucina, si sentì un po’ triste pensando che non gli sarebbe più capitato un simile privilegio.
– Stelle? Che sciocchezze dite? Non ho mai sentito nulla del genere. Quale distanza ci può mai essere, se si trovano tutte sullo stesso cielo? Vi prendete gioco di me. – La piccola fiammifera sembrava vagamente offesa.
– Vi dico che è così, amica mia. Perché non mi volete credere?
– Oh, basta adesso, – tagliò corto lei – non è corretto prendersi gioco di una signorina. Mi avete fatto passare la voglia di guardare la luna! Credo che mi metterò a dormire, dato che per stasera non c’è più nulla di interessante da fare, e voi siete noioso. Buonanotte!
– D’accordo, allora… buonanotte… – rispose Ulbo con un filo di voce. La sua amica si addormentò subito, e cominciò a russare sonoramente. Lui continuò a fissare la luna, e più si perdeva nella contemplazione della sua superficie luminosa più si rendeva conto di quello a cui aveva rinunciato: aveva sacrificato una parte importante, forse la migliore di se stesso; una parte che non avrebbe più potuto riavere indietro. Ulbo si sentì molto, molto triste.
Cominciò a stiracchiarsi, ad allungare il suo corpo legnoso più che poteva, protendendosi con tutte le sue forze verso il bordo del tavolo. Continuò a tirare trattenendo il fiato, finché la base a cui era attaccato non cominciò a scricchiolare, dapprima in maniera impercettibile, poi sempre più forte. Alla fine il legno si fratturò, la base cedette e Ulbo rotolò giù dal tavolo, senza produrre alcun rumore. Gli altri fiammiferi non si accorsero di nulla. A fatica riuscì a mettersi in piedi, in equilibrio sul suo esile fusto, poi guardò in direzione della scatola, dove la sua amica dormiva insieme ai compagni. Forse uno di loro, l’indomani, avrebbe avuto l’onore di essere acceso; magari proprio lei…
Ulbo uscì dalla cucina e attraversò il soggiorno. Il grosso gatto persiano ronfava, come al solito, sulle ginocchia del padrone, addormentato su una vecchia stuoia accanto alla finestra lasciata aperta. Il fiammifero saltò su di una sedia e da lì raggiunse il davanzale, poi atterrò in giardino. La luna lo osservò allontanarsi a piccoli balzi verso le porte del paese.
Attraversò, saltellando lungo la strada lastricata, i campi di malva e di lavanda. Nel frattempo il sole era sorto di nuovo, ma Ulbo non si trasformò; rimase prigioniero nel corpo di quel fiammifero bagnato e sporco di fango, perché di tanto in tanto perdeva l’equilibrio e finiva dentro le pozzanghere che si erano formate sul sentiero, a causa della pioggia del giorno prima. Sono perduto, ormai non servo più a nulla, mi sono bagnato, quindi nessuno potrà mai accendermi, rifletteva il Non-Più-Multifaccia continuando a camminare. Il sole tramontò di nuovo quando Ulbo raggiunse, stremato, lo stagno e la casa di Tom, ma non si fermò a salutarlo: proseguì in direzione del ponte di pietra.

La porta della baracca della strega era aperta: la vecchia era in casa, e stava preparando la cena. Ulbo era a corto di fiato e il suo corpo ricoperto di schegge. Non riuscì a mantenere ulteriormente l’equilibrio e si lasciò cadere sul pavimento. Raccolse le ultime forze che gli erano rimaste per chiamare la strega, sperando che riuscisse a sentire la voce di un esserino così piccolo: – S… Signora…
– Sì? Chi va là? – disse la vecchia girando la testa in direzione dell’ingresso. Poi, accortasi della presenza del fiammifero nonostante la penombra in cui tutta la casa era sprofondata, gridò: – Oh, cielo! Tu sei chi credo io? – e si precipitò a soccorrerlo. – Accidenti, guarda come ti sei ridotto… Cosa è successo, giovanotto? Come mai sei tornato?
– Signora, ho sbagliato… Ho commesso un terribile errore – rispose Ulbo quasi sussurrando, vinto com’era dalla stanchezza.
La strega non sembrò sorpresa dalle sue parole. Lo guardò e gli sorrise benevolmente, poi disse: – La tua natura non è quella di un fiammifero, né di un granello di polvere, né di un gatto, né di una rana, né di una volpe. Tu sei un Multifaccia, cambi a seconda dei colori del cielo: è questa la tua vera natura, e per quanto ti sforzi non potrai mai cambiarla. Ci sono fiammiferi che vorrebbero essere esattamente ciò che tu sei, e non riescono a vedere quanto di bello c’è nell’essere un fiammifero; trascorrono ogni singolo giorno della loro vita a lamentarsi della loro condizione infelice, poi qualcuno li accende, una fiamma bellissima sboccia sulle loro teste, un fuoco che porta calore e forse anche gioia, ma loro non se ne accorgono. Alla fine la fiamma si spegne e finiscono dimenticati da qualche parte. Il mondo è così vasto… Ecco, ora ti restituirò quello che è tuo. – La strega impose le mani sopra il povero Ulbo, recitò una formula incomprensibile e subito si trasformò in una lucciola. Una lucina intermittente roteò attorno ai suoi capelli d’argento e al suo enorme naso, poi volò fuori dalla finestra.

Un foglio di carta, che il vento aveva raccolto e portato da chissà dove, volteggiava attorno a un albero di tiglio, in un prato pieno di lucciole, sotto la luce della luna. Chi fosse passato di lì avrebbe certamente pensato: com’è limpido il cielo stanotte…

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Notte stellata sul Rodano

Ivan Bececco

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