Covid-19 di Albert Camus: coronavirus e peste tra vita e letteratura


Il caso Covid-19, la peste e le letture consigliate


Negli ultimi giorni sono usciti diversi post satirici sui libri da leggere in momenti di crisi come questo. Da chi consiglia di rifugiarsi in piccoli giardini appartati a raccontarsi storie, a chi propone una gita a Milano, sempre attuale quando si tratta di tumulti legati alla peste. Si potrebbe anche pensare di creare un’app di incontri: L’amore ai tempi del Coronavirus.

Per restare in tema, ho scelto di leggere questo mese La peste di Albert Camus. In effetti, è proprio in tema; non perché tratti di un’epidemia come quella che stiamo affrontando noi oggi, ma perché descrive i comportamenti che la gente assume quando percepisce di essere in pericolo.

In breve, la trama: la città algerina di Orano viene invasa in un primo momento da migliaia di topi. La notizia inizialmente riveste l’interesse generale, poi come sono venuti, i topi spariscono. Andandosene, però, infettano la città di peste e costringono la popolazione a vivere in esilio. Trincerate nelle loro case, le persone cercano di fare i conti con la propria vita: la solitudine, la lontananza, la morte, la disperazione, la fede e, soprattutto, la casualità di ciò che succede.

Ho cercato i parallelismi presenti tra la realtà del libro e la realtà che tutti noi, in queste ore, stiamo vivendo.


QUANDO LA PAROLA NON COMUNICA

Quando padre Peneloux, il prete di Orano, pronuncia un sermone in chiesa per contrastare l’ondata di diffusione della peste, esordisce in questo modo: “Fratelli miei voi siete nella sventura. Fratelli miei, voi lo avete meritato.”

Le accuse nei confronti di chi fugge la quarantena, di chi si lamenta della sospensione delle attività didattiche e culturali, di chi imperterrito va in discoteca o al pub sono solo in parte il riflesso di quanto detto da padre Peneloux. Non è la prevenzione che interessa chi scrive. Né è mio compito dire se aderisco o meno alle norme stabilite. Quello che interessa è la modalità con cui reagisce la maggior parte delle persone che viene a contatto con questo genere di informazioni. L’indignazione e la rabbia nei confronti di chi è colpevole sono i sentimenti primari che emergono dalle voci che sento sempre più spesso circolare.

La necessità di incolpare, è questo che emerge dal sermone di Peneloux. Anche il lessico giornalistico degli ultimi giorni fa pensare a una colpa dell’infettato.

L’espressione della rabbia, a mio avviso, ha due ragioni principali per chi la prova: serve a porre una notevole distanza nei confronti del contagiato “moroso”; e inoltre, in maniera più sottile, dota di senso una diffusione endemica del tutto casuale. Dare la colpa significa anche cercare un controllo nei confronti della malattia che difficilmente stiamo riuscendo ad ottenere.


INCAPACITÀ DI ISOLARSI/INCAPACITÀ DI ALLEARSI

Torniamo alla nostra indignazione precedente e pensiamo al signore settantunenne di Bergamo che, ricoverato a Como, appena si sente meglio scappa dall’ospedale e torna a casa propria. Questo è un esempio, ma tutti noi fatichiamo all’idea di isolarci. E facciamo ancora più fatica ad ammettere questa difficoltà.

Il narratore, quando l’epidemia inizia a diffondersi, osserva in questo modo: “Il risultato fu che noi continuavamo a mettere in prima linea i nostri personali sentimenti.

In questo momento tutti noi pensiamo in primo luogo a noi stessi; che sia biasimevole o meno ha poca importanza. Ciò che preme a chi scrive e far notare quanto questo tenda a isolarci. L’assenza di comprensione nei confronti di chi debba rimanere isolato è la stessa di chi da isolato fugge dall’ospedale rischiando di infettare altre persone. Ed è lo stesso sentimento di chi compra a dismisura svuotando i supermercati e chi vende le mascherine a centinaia di euro. Non si tratta di moralismo, si tratta solo di mettere in luce quali sono i sentimenti che stiamo decidendo di condividere gli uni con gli altri.


PAROLE CHE NON PARLANO/NUMERI CHE NON CONTANO

Alla fine della prima parte del libro, nonostante la difficoltà delle autorità nei confronti della malattia, si giunge finalmente al responso: è peste!

Ciò che si comprende bene è la difficoltà di ammettere il vero nome della malattia. Si assiste a continui tentativi di elusione, poiché ammettere che si tratti di peste, comporterebbe cedere alla consapevolezza a cui nessuno avrebbe voluto arrendersi. Peste infatti significa reclusione, isolamento, angoscia, morte straziante e privazioni di ogni sorta. Cosa vuol dire, invece, “Covid-19”?

Chi scrive non è virologo, né tanto meno ha mai voluto esserlo, ma ha sempre cercato di dare un significato alle parole che usa. Quello che si registra in questi giorni è una totale assenza di comprensione del significato della parola. Essa viene usata a sproposito e non solo la parola in sé, ma anche i suoi effetti. Persone sospettose appena starnutisci, vendita smodata di gel disinfettanti, episodi di autentico razzismo.

A differenza della Peste, cronaca di una morte annunciata, noi non sappiamo con che cosa abbiamo a che fare. Non sappiamo i suoi effetti, non sappiamo quanto sarà lunga la segregazione domestica, non sappiamo come la situazione potrebbe evolvere. Quello che tutti sanno e che vogliono è non rientrare nel piccolo numero di contagiati. E’ la paura nei confronti di qualcosa che non conosciamo a renderci così allarmati.

Altro elemento a cui fa riferimento Camus, attraverso le parole di Rieux, il protagonista nonché medico dei Orano, è l’ossessione per i numeri.

“Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando si fa la guerra, appena appena si sa che cosa sia un morto. E siccome un uomo morto non ha penso che quando lo si è veduto, cento milioni di cadaveri sparsi attraverso la storia non sono che una nebbia nella fantasia.”

Senza spingerci a tanto, anche 148 morti, dati aggiornati a questa sera, non sono facili da immaginare. Il continuo calcolo e la continua pubblicazione delle statistiche a che cosa servono, realmente, a noi che leggiamo? Non solo non siamo in grado di quantificare, ma sono dati che non possono essere confrontati per avere una stima reale degli effetti del virus. Ci servono, sempre e comunque, per avere l’illusione di una qualche certezza, di un qualche controllo. I numeri sono più facili da controllare delle epidemie.


ASTRATTO E IRREALE

Quando al dottor Rieux il giornalista Rambert chiede un certificato che attesti la sua buona salute e questi glielo nega, Rambert accusa Rieux di porsi nei confronti della malattia e delle persone in modo astratto.

“Erano veramente astratti i giorni passati in un ospedale dove la peste mieteva vittime portando a cinquecento la media delle vittime per settimana? Sì, c’era nella sciagura una parte di astratto e di irreale. Ma quando l’astratto inizia ad ucciderti, bisogna ben occuparsi dell’astratto.”

Quanto scritto fino ad ora vuol proprio far riflettere su questo. Per quanto riguarda il problema reale, ci si può attenere alle norme. Ma quello che ci sta mietendo, come società, è il problema astratto. Noi non sappiamo quantificare il virus, non possiamo prevedere lo sviluppo del virus, non sappiamo neanche se siamo infetti dal virus. Tra chi cerca di attenuare evidenziando l’isteria collettiva, chi è isterico e chi cerca un passaggio su Blablacar (perché tanto non saranno lì in quella macchinina i contagiati) non resta che ammettere che noi non sappiamo cosa fare.

E’ dura da digerire, ma non solo non sappiamo cosa fare con il virus, noi non sappiamo cosa fare di noi stessi. Come comportarci, con chi essere comprensivi, da che parte stare.

Il medico Rieux, nella disgrazia della peste, cerca di rimanere integro, di compiere il proprio lavoro e di essere onesto. La difficoltà vera è questa, rimanere onestamente legati a noi stessi nel momento in cui tutto intorno si sta modificando. Non è il miglior punto fermo, ma è l’unico che si possa sperare di avere.


Veronica Ragozzi

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