Confrontarsi con il Nostro Faber

Premessa: il seguente articolo non pretende di essere una recensione del disco in questione, bensì una riflessione sul senso di questo tributo.


Un recente precedente

Nel mondo della musica le celebrazioni sono sempre state presenti. Alcune volte doverose, altre francamente trascurabili ed evitabili; nel contesto italiano sembra siano diventate una costante a cadenza biennale. Nel 2017, infatti, in concomitanza con il ventennale di Ok Computer, alcuni artisti del panorama indipendente decisero di rendere omaggio al capolavoro concepito da Thom Yorke e soci due decenni prima, pubblicando Ko Computer. Come spesso accade, quando si vanno a toccare mostri sacri del genere, le maggiori critiche furono mosse riguardo il reale “bisogno” di un simile tributo, nonostante, comunque, la presenza di artisti importanti del nostro panorama musicale quali Iosonouncane, Appino e Marlene Kuntz, giusto per fare qualche nome.

La Cover di Ko Computercon i vari artisti coinvolti

Altro giro, altra corsa

A distanza di due anni dall’Inghilterra si passa all’Italia. Tuttavia, in relazione al contesto, il peso specifico della figura di De Andrè non è affatto minore a quello dei Radiohead; anzi, probabilmente, è maggiore. Già solo il titolo, Faber Nostrum, è un manifesto programmatico; quel Nostrum sta proprio lì, in maniera inequivocabile, a indicare ciò che De Andrè rappresenta nella nostra cultura: un patrimonio condiviso da tutti.

La tracklist completa, con i vari artisti coinvolti

La tracklist dell’album si snoda tra quindici brani; non possiamo non notare una certa eterogeneità nella presenza degli artisti coinvolti. In più occasioni ho visto scritto “L’indie italiano omaggia De Andrè”; ora, senza stare a entrare nella solita diatriba su dove finisca l’indie e inizi il mainstream (per la cronaca, il disco è distribuito dalla Sony) trovo che questa frase riassuma perfettamente quel senso di eterogeneità nominato poc’anzi.

A nomi storici della scena quali Ministri, Vasco Brondi e The Zen Circus si affiancano i vari Gazzelle e Canova, decisamente proiettati verso un bacino d’utenza più pop rispetto ai colleghi sopra citati. Ma anche nomi meno noti come Fadi o Artù.

Un confronto con la storia

Ma insomma, questo disco, a vent’anni dalla scomparsa di De Andrè, cosa ci porta?

Musicalmente parlando, ogni artista ha cercato di rileggere attraverso il proprio stile alcuni dei brani simbolo di Faber. Certo, i risultati sono un po’altalenanti. Personalmente non ho apprezzato la versione di Sally di Gazzelle (ma era proprio necessario metterla in apertura dell’album?), e ho trovato un po’ troppo sulla difensiva le reinterpretazioni di The Zen Circus (Hotel Supramonte) e Motta (Verranno a chiederti del nostro amore). Intendiamoci: probabilmente due tra le più fedeli, ma sembrano mancare di quel quid che, da artisti del genere, mi aspetterei.

Per intenderci meglio: Appino, ne Il Testamento, il suo album solista del 2013 (e, per chi scrive, uno dei dischi italiani più belli degli anni ’10), nel pezzo La Festa della Liberazione reinterpreta Via della povertà, a sua volta riproposizione, con il testo in italiano, di Desolation Row di Bob Dylan.

Ho trovato delle piacevoli sorprese nelle versioni di Fiume Sand Creek dei Pinguini Tattici Nucleari e del Cantico dei Drogati di Artù (nonostante non mi faccia impazzire il suo timbro vocale, l’ho trovata, nel complesso, una bella versione).

Tuttavia, se dovessi trovare un apice nel disco andrei senza dubbio sulla versione di Inverno de I Ministri i quali, a quanto pare, quando si tratta di canzoni che parlano de “la stagione del biancospino” si trovano perfettamente a loro agio nel confrontarsi con i mostri sacri della nostra musica (vedi la versione di Alexander Platz di Battiato).

L’importanza della memoria

Ma alla fine, qual è il vero senso di un’operazione del genere? Avvicinare le nuove generazioni alla figura di De Andrè? Sinceramente c’era veramente bisogno di un disco di cover per far conoscere un personaggio così importante della storia della nostra cultura? Se la risposta fosse sì, un po’ inizierei a preoccuparmi.

Oppure permettere a degli artisti di reinterpretare secondo il proprio stile alcuni brani del più importante cantautore italiano? Omaggiare nella musica, a mio modo di vedere, è un cosa fondamentale; in alcuni occasioni operazioni del genere hanno permesso di riscoprire artisti che la memoria del tempo aveva iniziato a far dimenticare. Certo, questo non è il caso di Faber, la cui presenza è forte ancora oggi a vent’anni dalla sua scomparsa; tuttavia trovo che il senso di questo disco sia veramente sotto gli occhi di tutti. Nell’anno in cui anche la PFM, dopo quarant’anni esatti, ha deciso di riportare sui palchi la storica collaborazione live, trovo che un album che omaggi la figura di De Andrè sia quanto di più naturale, e anche giusto, possibile, indipendentemente dal fatto che ce ne fosse un reale bisogno o meno.

Sulla qualità degli artisti coinvolti e sulla reinterpretazioni dei vari brani si potrebbe stare qua e discuterne a lungo senza arrivare ad una conclusione. Ogni ascoltatore trarrà le proprie conclusioni. Del resto, lo avevo detto anche in apertura: questo articolo non pretende di essere una recensione.


Leonardo Bindi.

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