"Che hai detto?" – Non solo aiò

Pare che per essere dei veri sardi basti inserire una –u alla fine del cognome, atteggiarsi a persona orgogliosa e testarda, infilarsi il pane carasau sotto braccio e affermare di aver visto tutti e settemila i nuraghi di Sardigna, inserendo di tanto in tanto un “aiò” (q.b.).

Ma il sardu non è solo “aiò” (parola dai molteplici e oscuri significati).

È una lingua (o limba) romanza, cioè fa parte di quel gruppo di lingue che hanno origine dal latino (come italiano, francese, spagnolo etc.) che si sono diversificate geograficamente per l’influsso dei vari sostrati linguistici (cioè parlati in un’epoca anteriore a quella in cui il latino si è diffuso). Il sardu è considerato una vera e propria limba, poiché da un punto di vista puramente glottologico ha caratteristiche esclusive all’interno del gruppo romanzo. La sua unicità deriva soprattutto dal fatto che è la più conservativa del latino tra tutte le lingue.

Nel sardo si distinguono le due grandi varianti fondamentali del logudorese e del campidanese: il primo parlato nella fascia settentrionale della Sardigna, il secondo in quella meridionale. All’interno di queste due varianti, però, si riscontrano numerose altre ripartizioni; all’estremo nord della regione, invece, si parlano il sassarese e il gallurese, mentre ad Alghero il catalano. Come per tutti i dialetti d’Italia, le microvarianti tra una zona e l’altra della regione sono talmente tante che, anche se di poco, superano il numero di barzellette sui pastori della Sardegna. Infatti, mi dice una piccola sarda trapiantata a Siena, l’Isola di San Pietro (a sud-ovest della Sardigna) ha subito delle invasioni tali da parte dei liguri che si è venuto a formare il tabarchino, variante del ligure stesso. Tant’è che gli abitanti dell’isola non si ritengono neppure sardi! Inoltre, all’interno dello stesso campidanese vi sono profonde differenze, soprattutto a livello di pronuncia. Se infatti nel sud-ovest della Sardigna si dice “gannamaua” (cioè nausea) di fronte a un piatto di porceddu che non è stato cucinato da un auntenticu sardu, a Cagliari si dice “gannamala”, mentre nel medio campidano (ovvero un po’ più a nord) “gannamaba”.

Però si capiscono sempre. Il problema arriva quando un sardu si sposta in continente: i cartelli stradali con i nomi di città, le radio, i giornali e persino Wikipedia e le istruzioni per montare i mobili dell’Ikea non sono in limba sarda. A ogni modo bisogna stare attenti a non far incontrare un sassarese con un cagliaritano: la mia confidente sarda mi ha espressamente detto che “Casteddaiu e sassaresu non si porinti bii”, un po’ come pisani e livornesi, o come pisani e fiorentini… o come pratesi e pistoiesi, o fiorentini e senesi, o lucchesi e pisani. Ma mentre le ostilità tra le province toscane risalgono all’età medievale, quella tra Cagliari e Sassari trova le sue radici nella competizione per diventare capoluogo di regione.

Se ci si cimenta nell’offendere un sardo, è possibile ricevere in cambio un bel “giustizia d’abbruxiri” (giustizia ti bruci). “Chi ti cariri una bomba” (che ti scenda addosso una bomba), invece, è frequentemente adoperato da un sardo alle prese con le salite di Siena. Effettivamente tradotte in italiano non rendono molto, ma hanno un forte potere evocativo. Un’altra esclamazione frequente è “ta làstima” (che peccato, in modo quasi ironico) che, come mi ha rivelato la mia informatrice, deriva dallo spagnolo “que làstima”, che significa “che peccato”, per l’appunto. Infatti il campidanese ha subito molti influssi spagnoli, tant’è che il nome di Iglesias (cittadina che con Carbonia forma la provincia di Carbonia-Iglesias) ha origine proprio dallo spagnolo iglesia che vuol dire “chiesa”. Se invece vogliamo dar ragione a un inglese ma proprio non ci ricordiamo che si dice “you bet”, allora il sardo ci presenta un valido sostituto: “diarerusu” (ci puoi contare).

Un parere sul sardo in età medievale ce lo dà Dante nel De Vulgari Eloquentia. Il sommo poeta scrive che i sardi appaiono privi di un volgare proprio dal momento che imitano eccessivamente il latino. È molto più brutale nelle sue considerazioni, ma abarrai tranquillusu (state tranquilli)! Su altri dialetti (o volgari, come li chiama lui) è di gran lunga più mordace.

Alle mie domande su cosa le piaccia della sua lingua e se ritenga sia importante mantenerla viva, la mia informatrice risponde così: “Una cosa che mi fa ridere del sardo sono le u, che sono ovunque. Credo che l’80% dei cognomi in Sardegna termini con la u. E mi piace il fatto che sia espressiva… in italiano certe cose non rendono. Il sardo colma una visione delle cose che l’italiano non può offrire. Penso sia importante parlarlo e mantenerlo vivo. Purtroppo sono sicura che a un mio eventuale figlio non parlerò in sardo e questa cosa andrà perduta perché lui non lo conoscerà e non lo insegnerà ai propri figli. Il problema è che il sardo non ha una tradizione scritta su cui poter fare degli studi in un futuro. Potrebbe rappresentare una fonte di ricchezza culturale che però per diversi motivi si andrà a perdere. La lingua che usi è espressione di un modo di vedere, di una mentalità. Ma penso che non sia il sardo in sé… Credo che tutti i dialetti abbiano questa caratteristica.”

Ed è proprio così.

(Ringrazio Jessica per la consulenza sarda)

 

Ilaria Borrelli

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