"Che hai detto?" – Noi si parla toscano

Ovvìa, stamani la m’è presa bene… sicché andrò avanti con la rubrica “Icché t’ha detto?”.

Lingua di grandi poeti e illustri pittori conosciuti in tutto il mondo, idioma di mezzadri e bucaioli, il toscano è da considerarsi un vernacolo più che un dialetto, cioè una parlata limitata a una precisa zona geografica ristretta, quindi di stampo locale e popolare. Non è un dialetto perché c’è pochissima distanza tra l’italiano comune e le varietà del toscano. È il braccio destro, la spalla, il gobbo dell’italiano.

Firenze è la capitale linguistica della nostra nazione e, infatti, l’italiano discende dal toscano o, meglio, dal fiorentino “emendato” di quel Trecento tenuto in pugno dalle Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio).

Il toscano tende ad indebolire alcune consonanti. Un esempio? Chi non ha mai tentato di scimmiottare un toscano chiedendo la classica “Coca Cola con la cannuccia corta corta?” (da pronunciare con la “c” aspirata, tecnicamente chiamata gorgia).

La gorgia toscana non riguarda solamente l’indebolimento delle “c”, ma anche delle “p” e delle “t”. Difatti in “Tito, tu m’hai ritinto il tetto, ma non t’intendi tanto di tetti ritinti” molte delle t vengono aspirate. Non tutte, però! Infatti la gorgia viene spesso bloccata dal cosiddetto raddoppiamento fonosintattico per il quale alcune consonanti vengono addirittura raddoppiate: il tetto verrà pronunciato “i’ttetto”; analogamente, “sono da solo” diviene “sono dassolo”.

Ogni zona ha le sue peculiarità, soprattutto a livello fonetico. Per esempio, se in alcune zone la “c” è solo aspirata e quindi viene pronunciata come un’acca, in altre viene completamente annullata. Quando si tira un moccolo, quindi, a Firenze o a Prato è “Maremma buhaiola” quella che a Pistoia è solamente “buaiola”.

Il vero fiorentino è immancabilmente tifoso della Fiorentina. Altrimenti l’è uno strullo, di fòri come i terrazzi. E se un n’è strullo, l’è buco (buho o buo, a seconda di dove ci si trova). In più, deve essere in grado di produrre una supercazzola mangiando una fiorentina (la ciccia, ovviamente) al sangue in cima al campanile di Giotto.

Nei territori della bassa Toscana, ma anche a Lucca (patria di veri taccagni che “si riportan a casa anche la merda”), è diffuso l’articolo determinativo plurale in “l”: “chiudi l’occhi”… che c’è un pisano, magari. Questa sarebbe la cosa più brutta che possa capitare a un livornese. Celebre è l’espressione “Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio” e lo stesso Vernacoliere (rivista satirica livornese) non risparmia battute sull’antica repubblica marinara. Boia deh, Livorno è famosa proprio per la bestemmia facile… e l’insulto sempre pronto nei confronti di Pisa, che però ribatte con “Il sogno di un pisano è alzarsi a mezzogiorno, andare verso il mare e non vedere più Livorno”. Famosa in Toscana è anche la rivalità tra Prato e Pistoia. Nella città della tessitura, i pistoiesi vengono chiamati “piri” e se, guidando, si ha a che fare con qualche pirata della strada lo si qualificherà come pistoiese… Si dice proprio “guidare come un pistoiese”! E se un pratese ha davanti a sé un’auto targata PT, puoi star certo che ne manterrà le distanze.

Se ti è capitato di parlare con qualche grossetano o con altri abitanti della bassa Toscana, ti sarai subito reso conto di una simpatica caratteristica: mettono sempre una “i” davanti a l’. “Prendi ill’uva!” o “Passa ill’acqua!”.
A Livorno, invece, è normale sentire un anziano sbraitare con la moglie “Deh, l’è proprio cardo!”, poiché si tende a inserire le “r” al posto delle “l”.

La leggenda narra che il Granduca di Toscana (probabilmente Leopoldo II) non volesse spendere soldi per costruire un manicomio in quel di Siena… tanto, per quanti grulli c’erano a giro per la città, sarebbe bastato chiudere a chiave le porte delle mura e “bell’e fatto”. Oggi, però, il manicomio si vede eccome a Porta Romana e lo conoscono bene gli studenti di Lettere e di Ingegneria di Siena, rinchiusi lì a studiare.
Ma una cosa che il visitatore deve sapere, e che si dovrebbe inserire nelle guide turistiche, in fondo, quasi come una controindicazione, è la portata della sindrome del sicché-vedrai. Può prendere chiunque. Una volta ho sentito una salentina dire “Sicché, sciamu a ballare, vedrai”. La tipica frase del senese doc, difatti, è “Sicché, vedrai, i’ ciaccino si va a comprallo ai’ forno della mi’ contrada”.

Se ti dicono che “un tu c’hai punti punti”, non stai parlando con un balbuziente ma con un cassiere toscano alla Coòppe che ti fa notare la tua negligenza nella raccolta dei bollini. E così, se ti dicono “un n’hai ritegno punto”, non devi ascrivere quel “punto” a una capziosa mania di palesare segni d’interpunzione. Punto e punti in toscano stanno per “per niente”.

Bellino, eh? Delafìa! (Termine viareggino per “ammazza!”).

Via, l’abbozzo qui.

 

Ilaria Borrelli

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